Nelle sale troviamo First man – Il primo uomo (leggi la nostra recensione), ultimo film di Damien Chazelle presentato in concorso alla 75a edizione del Festival di Venezia, biopic sulla vita di Neil Armstrong. Per l’occasione abbiamo selezionato i 10 migliori biopic della storia del grande schermo.
Questa è la seconda parte, leggi anche la prima parte!
Magnifico semi-immobilismo
La consacrazione internazionale di Daniel Day-Lewis arriva con Il mio piede sinistro (1989), diretto da Jim Sheridan. Tratta dall’autobiografia del protagonista, l’opera narra le vicende di Christy Brown, nato gravemente paraplegico in una famiglia operaia. Col passare del tempo, egli imparerà a controllare magistralmente il piede sinistro, fino a diventare pittore e scrittore di successo.
Sebbene lontanissima dal patetismo diabetico di altri biopic, Il mio piede sinistro è un’opera pregevole sotto molti aspetti. Trattasi dell’esordio alla regia di Sheridan, che dà prova di una magistrale direzione d’attori: sia Daniel Day-Lewis (nella parte di Christy Brown), che Brenda Fricker (in quelli di sua madre), riceveranno infatti l’Oscar. La narrazione è piana e scorrevole. Scenografia e fotografia non inseguono il virtuosismo, ma prediligono il dettaglio realistico. Tutto ciò fa del film un fedelissimo specchio della classe operaia britannica di metà 900. La regia, asciutta e poco incline al sentimentalismo, valorizza oltremodo la sontuosa prova di Daniel Day-Lewis, di un’aderenza estrema al personaggio. La sua recitazione costituisce un magistrale esempio di mimetismo attoriale: ogni sguardo, ogni movimento o espressione fanno vacillare il concetto stesso di “interpretazione”, data l’incredibile verosimiglianza. A testimonianza della metodica maniacalità di Day-Lewis, l’attore statunitense ha realmente imparato a scrivere col piede sinistro.
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La vita da pianista di Polański
Il pianista (2002), di Roman Polański, racconta la storia del pianista polacco Władysław Szpilman, superstite degli orrori dell’invasione nazista di Varsavia e della conseguente ghettizzazione degli ebrei della città.
Il significato di un’opera come Il pianista travalica ogni confine e categoria. La pellicola, magistralmente diretta, vede come splendido protagonista Adrien Brody, vincitore del Premio Oscar. La sua prova è struggente: dipinge un ramingo, che vaga nel silenzio assordante senza alcun aiuto né forma di sostentamento. A sorreggerlo, nel suo pallore e nella sua mostruosa magrezza, è soltanto il ricordo delle note di Chopin. Sono numerose le sequenze che vedono il pianista vagare in totale solitudine nella Varsavia dilaniata dalla guerra. La scenografia è di una fedeltà incredibile. Il ritmo della storia, ora concitato, ora rallentato, drammatizza perfettamente il clima della Polonia occupata, nella quale oppressione ed incertezza si traducono in un crescente sentimento di angosciosa solitudine e di morte imminente. In questo climax, Polański evita la scontata commozione senza indugiare come un vouyeur inopportuno, e riprende ogni atrocità – spesso a debita distanza – come in un documentario. Nel suo girovagare tra la miseria, Szpilman cessa di essere solo sé stesso. Egli concretizza l’intera poetica del regista, spesso incentrata su varie figure di “solitari” immersi in un mondo indecifrabile, caotico e spesso ostile. Szpilman è anche molto altro, e cioè una personalissima trasfigurazione della vicenda biografica del regista, passato in prima persona dagli orrori del ghetto di Cracovia, e sempre vittima di un esilio per il mondo a causa di vicende controverse e dolorosissime del quale si è reso protagonista. Polański, che per l’occasione è tornato a dirigere in patria, finisce per trasmettere, come per osmosi, una forza incredibile ad una pellicola emozionante come poche altre. La Palma d’Oro a Cannes è la logica conseguenza di un film dalla forza dirompente.
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Un libro fatale
Truman Capote – A sangue freddo (2005), realizzato da Bennett Miller, ha per protagonista uno degli scrittori più geniali, controversi e discussi del ventesimo secolo: Truman Capote. Reduce dal successo di Colazione da Tiffany, nel 1959 Capote è catapultato in una storia di sangue raccapricciante: l’omicidio della famiglia Clutter, nel Kansas, ad opera di Perry Smith e Richard Hickock. Decide di trarne un libro, che lo consacrerà nell’olimpo della letteratura a prezzo di una profonda depressione, dalla quale non si riprenderà mai più.
Gran parte della fama della pellicola è, giustamente, dovuta all’impressionante interpretazione di Philip Seymour Hoffman. Egli, semplicemente, è Capote: ne riproduce la mimica, le posture, il tono di voce – la cui somiglianza ha davvero dell’inquietante –. Hoffmann riesce a veicolare il temperamento dello scrittore nella frazione di secondo concessa da uno sguardo: ora elettrizzato, all’idea di scrivere un “romanzo-verità”; ora cupo, dopo l’esecuzione di uno dei due assassini, quel Perry che per lui fu più di un informatore. La figura di Capote apre uno squarcio densissimo di significati. Non solo sulla straordinaria personalità del protagonista, fragile, vanitoso, altero, snob, spesso centro gravitazionale dell’alta società americana eppure isolato. Ma soprattutto sul moto intellettuale ed emotivo di un artista, visceralmente attaccato alla propria creazione. Al punto tale da non riuscire più a liberarsene. Al punto tale, in un certo senso, di perire con e per via di essa. In quella che resta un’opera esteticamente e tecnicamente pregevole, con una fotografia grigia e gelida quanto il sangue freddo necessario agli assassini per compiere i delitti, pari quello di Capote nell’accostarsi ad una materia tanto raccapricciante, la capacità di Bennett Miller è anche quella di far riflettere sull’innato e scabroso istinto voyeuristico che alberga nello spettatore. Allora, come oggi.
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La prigione del corpo
Risale al 2007 Lo scafandro e la farfalla, opera di Julian Schnabel incentrata sulla storia di Jean-Dominique Bauby, il noto giornalista che in seguito ad un ictus fu in grado di sbattere solo la palpebra sinistra, sebbene perfettamente cosciente e lucido della propria condizione.
Adattato dall’autobiografia di Bauby, che la scrisse quando era già prigioniero del suo corpo, il dramma girato da Schnabel non si discosta da altri biopic incentrati su uomini colpiti da menomazioni fisiche più o meno gravi. Ma Schnabel confeziona una regia sontuosa – premiata infatti con la Palma d’Oro a Cannes – per via della quale lo spettatore si trova letteralmente rinchiuso nel corpo del protagonista: egli vede attraverso il suo unico occhio, sente i suoi pensieri più intimi, ne percepisce l’angoscia ed il tormento, ma anche i lontani e piacevoli ricordi. Nonostante una messinscena così claustrofobica, Lo scafandro e la farfalla esibisce un tono mai preda del sentimentalismo, ma anzi incline spesso al riso (amaro) ed a considerazioni tristemente divertenti. Mathieu Amalric è lo splendido protagonista di una vicenda le cui tonalità variano con disinvoltura. La pellicola, inoltre, riconferma la passione di Schnabel per il genere biopic, declinato secondo una poetica mai scontata ed a tratti lirica, dove la densità del dramma è pari soltanto alla meravigliosa impostazione scenica, capace di rimanere grande pur focalizzandosi su un uomo immobile.
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L’uomo. La natura. Il senso.
Per Into The Wild (2007) il regista Sean Penn ha adattato l’omonimo romanzo di Jon Krakauer che narra la – breve – vita di Christopher McCandless, figlio di una famiglia benestante che decide di lasciare tutti gli agi alle proprie spalle e scommettere su una vita solitaria, a contatto diretto con la poetica brutalità della natura.
La storia di Christopher McCandless conquista in breve tempo lo spettatore, almeno sul piano emotivo, partendo dall’universale desiderio di ribellione che, in vario grado, ogni spettatore potrebbe aver provato nel corso della propria adolescenza. L’insofferenza verso i modelli consumistici si intreccia con colte ascendenze letterarie (vari i riferimenti alla letteratura di Henry David Thoreau), in un film che scava in profondità nell’animo di un giovane proteso verso l’utopia di una vita libera, priva di condizionamenti esteriori (ma non esterni). Può esserci vita senza relazione? Qual è il senso ultimo ed autentico della vita? Cos’è, nella sua essenza, la solitudine? Il film di Penn è introspettivo come pochi, calibrato unicamente sui sentimenti del protagonista, che nel suo viaggio imparerà a sue spese quale prezzo occorre pagare per inseguire i propri sogni con ferrea determinazione. Ad accompagnare queste riflessioni, una fotografia vibrante, in grado di mostrare l’ambivalenza della natura: ora foriera di scorci e colori mozzafiato; ora muta eppure rivelatrice, inappellabile giudice della chimica umana, nelle cui ultime fibre – forse – si rivela la sola ed ultima verità. Notevolissima l’interpretazione di un Emile Hirsch in stato di grazia.
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