Venerdì 6 aprile è approdata sugli schermi la seconda parte de La casa di carta, la serie ideata da Álex Pina e trasmetta dal colosso Netflix. La casa di carta, con questo finale corale e intenso, si conferma essere una serie di tutto rispetto, dalle tinte a tratti forti, che fanno mettere in discussione i classici ruoli della nostra società, facendoci porre un semplice quesito: e se i buoni in realtà fossero i cattivi, e viceversa?
La casa di carta: la sinossi
In questo ciclo di 9 episodi viene narrata la fase finale del colpo del secolo, la rapina alla Fábrica Nacional de Moneda y Timbre di Madrid ad atto della banda del geniale Professore (Álvaro Morte): arrivati al rush finale, sempre più stretti nella morsa della polizia, i membri rimanenti devono affrontare situazioni estreme, che metteranno a dura prova i nervi e i sentimenti.
In questa pezzo di stagione de La casa di carta, vediamo il baricentro del potere tremare più che mai: Berlin (Pedro Alonso) prende delle decisioni infelici ma necessarie al fine di riportare l’ordine all’interno della banda, a discapito di Tokyo e Rio (Úrsula Corberó, Miguel Herrán).
La ribellione ha così inizio, e questo fa porre al vertice della piramide Nairobi (Alba Flores), che deve fronteggiare i tentativi degli ostaggi di rovesciarla, così come quelli proveniente dall’ispettrice Raquel Murillo (Itziar Ituño), che al contempo si sta innamorando sempre più di Salvador/El Professor.
La casa di carta: le nostre impressioni
Questa seconda parte de La casa di carta può essere riassunta con una serie di parole chiave, la cui prima in assoluto è emotività: questi nove episodi sono intrisi di sentimenti di varia natura, dalla paura, alla tensione, all’affetto, al senso di lealtà ed onore, fino ad ovviamente e immancabilmente all’amore.
Quest’ultimo, che troviamo in ogni puntata e rappresentato in vari modi, è il filo conduttore della serie: che sia quello genitoriale tra Denver (Jaime Lorente) e Moscù (Paco Tous), o quello prettamente sentimentale fra Tokyo e Rio, Raquel e il Professore, o tra fratelli (super colpo di scena) fra Salvador e Berlin, l’amore c’è, prepotente, chiaro, evidente. Questo sentimento però è vissuto estremamente, acquisendo in alcuni passi tinte quasi violente, accompagnate da manifestazioni di umanità inaspettate, che ammorbidiscono gli spigoli di questi ladri, capaci di tenere in scacco per giorni e giorni non solo la Spagna, ma tutto il mondo.
L’aver giocato proprio sulla profonda natura umana dei personaggi ha fatto sì che il pubblico, me compresa, tifasse per loro e non per la polizia, passando dalle risate (in questa seconda parte de La casa di carta meno presenti) alle lacrime (qui in abbondanza). Tokyo, Berlin, Moscù, Denver, Rio, Nairobi, Helsinki diventano così i nostri eroi, poiché si violenti ma anche fragili, profondamente veri, reali, umani. I legami umani diventano centrali in questa parte de La casa di carta, in particolare quelli che intercorrono sia tra i membri della banda che tra quest’ultimi e il Professore, il nostro Superman/Clark Kent spagnolo. Ad ogni modo, sarà proprio questo, il sentimento più profondamente umano, a trionfare, rendendo Salvador/Sergio il vero vincitore, sia materiale che morale.
Uno dei momenti più belli ed emozionanti, oltre alla sequela di abbracci scambiati da Salvador e i membri della banda una volta scavato il tunnel e, ovviamente, il sacrificio eroico del “ladron caballero” Berlin, è il dialogo fra Moscù e Denver: il padre, che è un po’ il padre di tutti i ladri della banda, muore con dignità e forza, in una lenta agonia che culmina con lo scambio d’amore col figlio, uno dei personaggi più sorprendenti della storia. Denver parte come un classico “tamarro”, la cui unica aspirazione nella vita pare essere fare a pugni e ballare in discoteca, per approdare alla figura di uomo giusto e nobile, amorevole e dolce, risvolto inaspettato visto i presupposti.
L’amore è si il punto di forza de La casa di carta, ma è anche l’unica falla nel piano perfetto del Professore che, dopo aver passato tutta la sua vita a pianificare la rapina alla Zecca spagnola, mette tutto a rischio per una donna che è, puta caso, il suo nemico giurato. Quest’uomo, così istrionico, così talentuoso, è di certo uno dei motori di La casa di carta, che rende lo show interessante ed emozionante, con quel tocco alla Sherlock Holmes di Cumberbatch che non dispiace.
Un’altra parola chiave de La casa di carta è senz’altro libertà: quest’ultima è l’obiettivo di tutti i membri della banda e di Salva per vari motivi: per alcuni non c’è scelta se non la fuga per ottenerla, per altri vorrebbe dire potersi liberare delle zavorre del passato, per riniziare, per riprendersi la propria famiglia, per costruirsene una, per liberarsi di un sistema marcio che mangia tutti noi come una malattia, prendendo del denaro che è, a tutti gli effetti, intonso, fantasma.
Passiamo alla terza parola chiave: lealtà. Sì, è proprio la lealtà un altro importante filo conduttore della narrazione, che ritorna come un mantra espresso con la frase “Abbi fede, abbi fede”, “io credo nel Professore”. La fiducia riposta in Salvador, che sembra fare di tutto per salvare non tanto il suo piano quanto i suoi “figli”, i ladri, è colui che infine fa da collante al gruppo, che porta speranza e fiducia.
intensa e profondamente umanaLa casa di carta - seconda parte
Valutazione globale - 8
8
La casa di carta: un giudizio in sintesi
La casa di carta è senz’altro un finale che rende giustizia ai 13 precedenti episodi che componevano la prima, mostrando un percorso introspettivo ancor più profondo e toccante, che scuote per l’intensità delle emozioni portate sullo schermo.
Una storia intensa, forte, fatta di personaggi umani, che lottano per un ideale, senza abbandonare davvero la speranza: La casa di carta è di certo un prodotto meritevole, fruibile, che merita e necessita il binge watching e che non può annoiare.
Nella speranza che arrivi un secondo capitolo, non ci resta che sperare nella mente geniale del Professore.
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