La recensione della seconda stagione di Homecoming, la serie di Amazon Prime Video basata sull’omonimo podcast.
Leggi anche la recensione della prima stagione
Homecoming 2: la trama
Una donna si risveglia in stato di semi-incoscienza a bordo di una barca alla deriva in un lago. Non ricorda né la propria identità né come sia finita in quella situazione. Grazie a una ricevuta trovata nella tasca, però, è in grado di ricostruire i suoi ultimi spostamenti. Ben presto, alla donna sarà chiaro come dietro alla sua sciagura ci sia lo zampino della Geist, un’innocua società che all’apparenza produce saponi e prodotti per la casa…
Homecoming 2: le nostre impressioni
Sin dalle prime battute è chiaro come la seconda stagione di Homecoming sia formalmente e sostanzialmente diversa dalla precedente. In primis il cambio di protagonista, con Janelle Monàe che succede nel ruolo di protagonista a Julia Roberts. La prima, pur non sfigurando particolarmente, non ha ancora il carisma per reggere da protagonista e il confronto con la predecessora Heidi Bergman è piuttosto crudele.
In luogo della grigia penombra che pervadeva gli ambienti chiusi della prima serie, si passa a un’ambientazione boschiva e rurale. Sono del tutto abbandonate anche velleità formali come i diversi aspect ratio, che nella prima stagione aiutavano lo spettatore a distinguere passato e presente. Anche qui si gioca su diversi piani temporali, ma in maniera molto più elementare. Anche la colonna sonora extradiegetica perde la funzione citazionista che copriva nei primi episodi. Non sentiamo più, ad esempio, inserti sorprendenti come le partiture di Pino Donaggio per i noir di Brian De Palma o estratti di La Conversazione di Ford Coppola. É come se l’assenza di Sam Esmail in cabina di regia (accreditato come produttore esecutivo) avesse segnato un impoverimento generale di Homecoming, con uno smussamento delle sue peculiarità a favore di un registro più convenzionale.
Anche sul piano narrativo si è messi di fronte ad un intreccio piuttosto povero, che espande pigramente la narrazione attorno alla misteriosa Geist (non scenderò nei dettagli per non rovinare i colpi di scena già centellinati). Il lavoro di cura e precisione effettuato su ambienti, dettagli e caratterizzazioni qui è tralasciato nel segno dell’appiattimento generato dalla regia di Kyle Patrick Alvarez. La forza della prima stagione, infatti, era quella di esprimere visivamente la punteggiatura del fortunato serial in podcast da cui era tratta: un perfetto lavoro di sintesi e pulizia veramente encomiabile. Inoltre, era davvero formidabile l’unione di racconto di impegno civile e distopia anticapitalista.
É come aver sostituito un elegantissimo orologio svizzero con uno di gomma trovato in regalo nella scatola dei cereali.Homecoming 2
Valutazione globale - 5.5
5.5
Homecoming 2: un giudizio in sintesi
Aver visto in successione la prima e la seconda stagione di Homecoming ha sicuramente acuito la percezione di un calo qualitativo già fin troppo evidente. Laddove nella prima stagione, diretta da Sam Esmail, si registravano un’economia narrativa e un rigore estetico di precisione svizzera, nella seconda parte si ha la sensazione di avere di fronte del materiale superfluo. Sono molti i momenti, infatti, in cui si ha la sensazione di assistere all’espansione futile di un congegno drammaturgico già perfetto. La durata ridotta di sette puntate da mezz’ora, inoltre, appare addirittura eccessiva dato il respiro cortissimo della nuova linea narrativa. Quello che resta è la distopia di un’America dove anche i servizi previdenziali possono essere piegati alle logiche dell’efficientamento e della gestione in outsourcing.
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