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The Eddy

The Eddy: la recensione della serie Netflix

The Eddy, titolo della serie Netflix diretta – tra gli altri – da Damien Chazelle, è disponibile dall’8 maggio in piattaforma.

The Eddy: la trama

The Eddy è il nome del locale parigino attorno al quale ruotano le vite e le vicende di un gruppo di musicisti jazz. Tra loro c’è Elliot Udo (Holland), ex musicista che si divide tra il rapporto problematico con la figlia adolescente Julie (Stenberg) e la direzione del locale fondato insieme all’amico Farid (Rahim), che si occupa del lato economico dell’impresa nonostante i dubbi della moglie Amira (Bekhti). C’è la cantante Maja (Kulig), che da New York si è trasferita a Parigi per seguire l’amante Elliot. E poi ci sono Sim (Dehbi), giovanissimo barista che si innamora della figlia di Elliot; Katarina (Obradovic), batterista dalle losche frequentazioni; Jude (Nueva), violoncellista con problemi di droga; infine il pianista omosessuale Randy (Kerber).

The Eddy: le nostre impressioni

Una scena di The Eddy

The Eddy non è un prodotto di Damien Chazelle. O meglio: non solo. A scanso di equivoci, è bene chiarire la paternità multipla di un’opera, che, proprio alla luce di questa considerazione, mostra pregi e difetti. Uscita dalla penna di Jack Thorne, la serie ha visto alternarsi alla regia ben quattro registi, con due episodi all’attivo ciascuno. A Chazelle, al quale va l’onere/onore di aver diretto i primi due episodi, si uniscono Alan Poul e le registe di origine marocchina Houda Benyamina e Laïla Marrakchi.

Ciò che sta quindi dietro alla macchina da presa, così come ciò che vi si colloca davanti, esplicita alla perfezione il concetto sottostante The Eddy: un’opera jazzistica su tutti i fronti, con una struttura che richiama secondo grandezze scalari proprio il celeberrimo genere musicale. Due episodi ciascuno per quattro registi; ogni singolo episodio dedicato ad un personaggio, le cui vicende talvolta si discostano dalle direttrici tematiche della trama principale per poi tornarvi invariabilmente in conclusione di puntata. Insomma, The Eddy è una serie (sul) jazz, ne ricalca gli stilemi sia in fase realizzativa che narrativa, con le tipiche dissonanze, gli assolo tanto dei registi quanto dei protagonisti, gli arzigogoli e i virtuosismi della ripresa.

È qui che si innesta però la principale criticità di The Eddy. L’importanza del nome di Chazelle potrebbe aver pesato come un macigno su tutti gli episodi diretti dai colleghi, risultando, in tal senso, leggermente controproducente. Le prima due puntate della serie, infatti, sembrano quasi vivere di vita propria rispetto al prosieguo della stagione, che sconta la tara di non essere accompagnata da una mano registica tanto accorta e profonda, misurata ed equilibrata anche nelle numerose riprese lunghe con una macchina a mano dai ritmi vertiginosi e irregolari. I primi due episodi ci restituiscono uno Chazelle che, abbandonato lo spazio di First man (2018), torna a muoversi sui terreni a lui più congeniali, quelli che a mio giudizio lo hanno portato ai migliori risultati con Whiplash (2014). Musica e cinema, note e immagini sono coestensive nella poetica del regista di Providence, che si aggira per i tavoli del The Eddy e le vite dei suoi musicisti con una sensibilità e una leggerezza di tocco che mi pare di poter ricondurre ad Abtellatif Kechiche. Il peso di Chazelle, come detto, si ripercuote sui restanti sei episodi della serie, vistosamente distanti dal tenore dei primi. Se ne ha prova soprattutto in fase di ripresa, dove, al posto dei frequenti long take, riscontriamo riprese più concitate e più canoniche, grammaticalmente più semplici e fruibili, a volte anche prevedibili.

Una scena di The Eddy

Sul piano squisitamente narrativo, The Eddy coniuga – in pieno stile jazzistico – una base di partenza riconducibile al “mondo a parte” del locale, fatto di performance ed equilibri musicali, con una sottotrama centrifuga che conduce Elliot e i suoi artisti all’inevitabile confronto col mondo circostante, non sempre pulito e quasi mai rassicurante. Procedendo per questa via, la serie batte le strade della rappresentazione della marginalità criminale parigina, alternando (pochi) colpi di scena e (diversi) giri a vuoto che appesantiscono lo sviluppo narrativo. Le vicende secondarie appaiono talvolta macchinose, talaltra pretestuose. Il risultato finale resta godibile, ma gli squilibri interni si affacciano a più riprese.

Quello descritto da The Eddy è, in definitiva, un mondo spietato, narrato con un tono realistico che non risparmia qualche pugno allo stomaco a corredo delle sospensioni musicali. La musica, il gruppo, il locale: questi sembrano essere gli unici appigli possibili per ciascuno dei singoli personaggi. Chazelle e colleghi offrono superficiali lampi da trattato sociologico-antropologico, riparando nel topos dell’arte come eterno luogo di vera, autentica e profonda armonia. The Eddy è una serie adatta non solo agli amanti del jazz, ma anche a coloro i quali hanno voglia di addentrarsi (senza troppe pretese) in una Parigi spogliata della solita aura di città dell’amore, e fatta di mescolanza e sogni, dolore e speranze.

The Eddy

valutazione globale - 6.5

6.5

Gradevole e scorrevole, con qualche passo falso

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The Eddy: giudizio in sintesi

The Eddy è una serie che sconta diversi squilibri interni, e questo ben al di là dell’impostazione strutturale fatta di alti, bassi e assolo che riflette i canoni del jazz. I primi due episodi spiccano su tutti gli altri, e denotano un’attenzione e una levità di tocco, quella di Chazelle, che si può paragonare a quella del collega Kechiche. I restanti sei episodi, meno ricercati formalmente e più narrativi, inciampano spesso in sottotrame secondarie che, ripetendosi, finiscono per avvitarsi su se stesse. Al di là di questo, The Eddy resta un prodotto godibile che indaga il mondo musicale parigino, e che fa del locale omonimo il centro gravitazionale di una serie di personaggi costretti a misurarsi con i patemi di una quotidianità violenta, multiculturale e marginale. Nel turbolento caos del quotidiano, la musica, il locale e l’armonia di gruppo sono i veri appigli per tentare di non affogare, tra qualche sentimentalismo di troppo e radi virtuosismi di macchina. Alla lunga il racconto si assesta su un registro più narrativo e prevedibile, e l’impressione è quella di un risultato centrato solo in parte.

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About Vito Piazza

Tutto inizia con Jurassic Park, e il sogno di un bambino di voler "fare i film", senza sapere nemmeno cosa significasse. Col tempo la passione diventa patologica, colpa prevalentemente di Kubrick, Lynch, Haneke, Von Trier e decine di altri. E con la consapevolezza incrollabile che, come diceva il maestro: "Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato".

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