La recensione di Gangs of London, la serie Sky creata da Gareth Evans, il regista di The Raid.
Gangs of London: la trama
Chi ha ordinato l’esecuzione di Finn Wallace (Colm Meaney), uno dei vertici della criminalità londinese? L’interrogativo alimenta l’incipit di questa crime story ambientata nella Londra post-Brexit. La malavita londinese, infatti, viene letteralmente travolta dall’evento, con guerre di successione e ritorsioni tra le gang desiderose a riempire il vuoto di potere. Il giovane Sean Wallace (Joe Cole), erede del boss deceduto, dà inizio a una feroce escalation di violenza alla ricerca dei responsabili dell’assassinio. Gli alleati, Ed Dumani (Lucian Msamati) e il figlio Alexander (Paapa Essiedu) non approvano, tuttavia, l’imprevedibilità del giovane boss sostenuto dalla madre Marion (Michelle Fairley). L’agente infiltrato Elliot Finch (Sope Dirisu), nel frattempo, approfitta della situazione instabile per scalare le gerarchie del clan Wallace-Dumani…
Gangs of London: le nostre impressioni
Che cosa sta diventando Londra in anni cruciali di post Brexit? É quanto mai appropriato che a provare a rispondere sia Gareth Evans (assieme al sodale Matt Flannery), un cineasta gallese distintosi in Indonesia per la regia di mirabili film action di arti marziali (il celebre dittico The Raid).
L’Inghilterra che rappresentano è una terra apparentemente senza una guida e teatro di scontri terrificanti tra gang dalle provenienze più disparate. La stessa famiglia Wallace soffre di un contesto in totale mutazione, dove hanno completamente perso la propria leadership. Agiscono in un’Inghilterra che, nonostante il propagandistico distacco, non è evidentemente a liberarsi degli effetti irreversibili della globalizzazione. Londra, infatti, è da decenni una Babele criminale e multietnica, come vent’anni fa Guy Ritchie ha raccontato, con toni più leggeri, in Lock & Stock e Snatch. In Gangs of London agiscono albanesi, curdi, gitani gallesi, danesi, nigeriani, tutti animati da mire speculative, soprattutto edilizie. Lo stesso patriarca Wallace aveva investito i proventi del crimine nelle costruzioni, un business quanto mai redditizio in un 2020 senza pandemie. Un giro d’affari così proficuo da giustificare conflitti di rara brutalità, compiuti alla luce del giorno e in totale assenza di repressione della pubblica autorità. La regia dello stesso
Evans oltre agli esperti Corin Hardy (The Hallow) e Xavier Gens (Hitman- L’assassino) lavora con grandissima perizia tecnica e abbondanti spargimenti di sangue su sparatorie e scazzottate, non rinunciando mai ai particolari più gore. In particolare, lo splendido quinto episodio evidenzia la meritata fama di Gareth Evans di maestro del genere action. Il cast multietnico è ottimamente assemblato, con ottimi volti emergenti (tra tutti brillano Brian Vernel nel ruolo di Billy Wallace, tormentato fratello di Sean, e Narges Rashidi nel ruolo della miliziana curda Lale) e affermati (ottima Michelle Fairley, qui matriarca sanguinaria dopo la giudiziosa Catelyn Stark ne Il Trono di Spade). A ogni personaggio è concesso il giusto arco narrativo, salvo alcune forzature soprattutto nell’ultimo episodio. Il finale rimane spalancato, anticipando un’inevitabile seconda stagione che non vedremo prima del 2022.
Una chiave di letture dell'Inghilterra post Brexit arriva da questa solida produzione di genere, che sposa Gomorra con i gangster londinesi già visti nei film dei Guy Ritchie.Gangs of London, stagione 1
Valutazione globale
Gangs of London: giudizio in sintesi
Sky Atlantic ha trovato un nuovo titolo di enorme successo in UK, dopo la straordinaria accoglienza di Chernobyl lo scorso anno. Questa volta si ripropongono le dinamiche di Gomorra, importante serie del network, traslate in un contesto differente e fertile di spunti narrativi legati alla forte multietnicità di Londra. Infatti, qui sono trapiantati persino conflitti legati alla sopravvivenza del popolo curdo o agli affari tra mafia nigeriana e albanese. É un universo costellato di infiniti e potenziali conflitti e soluzioni narrative, dove non stona nemmeno la presenza improbabili mercenari danesi. Evans e Flannery sembrano addirittura giocare con tutte le innumerevoli forze in campo nella città più globalizzata del mondo, con scontri di proporzioni quasi demenziali. Infatti, come accennato prima, la scrittura è molto “scorretta” nel permettere qualsiasi tipo di efferatezza senza la minima opposizione di elementi esterni come appunto la polizia (salvo l’ultimo episodio). Si può parlare di una sinfonia di distruzione offerta mettendo in disparte tutte le fonti di disturbo, premiando lo spettacolo a discapito della verosimiglianza. Si tratta, in ogni caso, di una crime story di spessore e dalla giusta tensione, che ci porta a riflettere su quanto sia difficile sopravvivere in un mondo apparentemente familiare ma allo stesso tempo ostile e insidioso.
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