È uscito nelle sale italiane Senza lasciare traccia — Leave no Trace, il quarto lungometraggio di Debra Granik. A otto anni di distanza dal successo di Un gelido inverno — Winter’s Bone, la realizzatrice e scenarista statunitense torna a servirsi del linguaggio cinematografico per parlare di coloro che vivono ai margini della società statunitense.
Senza lasciare traccia: la sinossi
Tom (la diafana Thomasin Harcourt Mckenzie) ha 15 anni. Vive clandestinamente con il padre Will (Ben Foster), un veterano traumatizzato di ritorno dall’Iraq, nei boschi del parco nazionale che delimitano Portland, in Oregon. I due formano un nucleo familiare affiatato e atipico che si pone come regola principale l’eremitismo. Improvvisamente espulsi dal loro rifugio, i due solitari saranno obbligati a reinserirsi nella civiltà, stando alle sue regole economiche e sociali. I servizi sociali offriranno loro un tetto, una scolarizzazione e un lavoro. Mentre Will riscontrerà grosse difficoltà nell’adattarsi, Tom sarà affascinata dalla scoperta di questa nuova realtà. Starà a lei scegliere tra l’amore filiale e il richiamo di una nuova vita.
Senza lasciare traccia: le nostre impressioni
Dopo il successo di Un Gelido Inverno, il racconto di una difficile vita familiare in Missouri premiato al Sundance Film Festival, Debra Granik si cimenta ancora una volta nella narrazione di vite ai margini. Senza lasciare traccia è l’adattamento del romanzo My Abandonment di Peter Rock, che ha voluto raccontare la vera storia della coppia padre e figlia che ha sconvolto la comunità di Portland. I due facevano e fanno parte di quel movimento fondato sulla preservazione e sull’applicazione di tecniche di sopravvivenza primitive: una forma di ‘survivalismo’ alla quale si aggiunge la volontà di preservare i talenti e le conoscenze dei nativi che abitavano quei boschi inospitali. Da ben quattro anni la coppia viveva nella riserva naturale e si avventurava in città unicamente per riscuotere la pensione d’invalidità del padre e per acquistare ciò che non potevano far crescere. L’adolescente era in piena salute e il suo livello d’istruzione era ben superiore a quello dei ragazzi della sua età. Dopo essere stati socialmente reinseriti contro il loro volere, Tom e Will scompaiono di nuovo nella natura. Il romanziere, affascinato da questo mistero, riempie le lacune della trama e immagina i dettagli più sentimentali del rapporto tra i protagonisti.
La realizzatrice riesce a tradurre con non poca destrezza e delicatezza la forza emotiva immaginata da Peter Rock sullo schermo, restituendo con uno stile documentario l’intimità del rapporto padre-figlia. Questo legame, fatto di tenerezza e di silenziose attenzioni, non è mai esplicitato; la bravura della Granik sta proprio nel lasciar cogliere allo spettatore la grazia con la quale i due si prendono cura l’uno dell’altra nella lotta per lo sopravvivenza e per la difesa del loro stile di vita.
Incapace di accettare la realtà e torturato da incubi notturni, Will trova pace solo nella bolla esistenziale che ha costruito con Tom, nella più totale immersione nella natura. Ed è proprio quest’ultima, al contempo benigna e maligna, a scandire il ritmo non propriamente incalzante della storia. I boschi dell’America del Nord passano dall’essere tanto una dimora confortevole quanto un’ostile minaccia alla loro sopravvivenza. Ma questa natura mutevole sembra saper adottare i colori dei sentimenti dell’eroina, toccando di fotografia in fotografia il diapason del dilemma dell’adolescente. La lodevole interpretazione della giovanissima Thomason Harcourt Mckenzie, coadiuvata dal lirismo efficace ed essenziale delle musiche di Dickon Hinchliffe fanno sì che il nocciolo narrativo s’incentri infatti sull’evoluzione psicologica della figlia, tanto affascinata dal mondo esterno quanto affezionata al padre.
In questo sfondo, l’esclusione volontaria di Tom e Will rievoca l’esilio di Prospero e Miranda de La Tempesta. Solo la figlia potrà calmare la tempesta interiore che corrode il padre. Solo il padre potrà avere la forza di lasciare alla figlia la libertà di scegliere come vivere la propria vita.
Senza lasciare traccia
valutazione globale - 7
7
L’intimità del rapporto padre e figlia raccontato con grande delicatezza
Un giudizio in sintesi
Questo quarto lungometraggio s’inserisce con grande coerenza nella filmografia della regista, una filmografia incentrata sugli outkast statunitensi che ha valso a Debra Granik un’ottima nomea nel panorama del cinema indipendente. Attraverso uno stile documentario Deabra Granik mette in scena il duo padre e figlia che costituisce una comunità autonoma, sufficiente a se stessa. Tom e Will nel loro non voler lasciare alcuna traccia, diventano i portavoce di coloro che, per scelta o per imposizione, vivono ai margini, più prossimi all’oblio che al reinserimento e all’accettazione sociale.
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