Home / Recensioni / Mektoub, My Love: canto uno – la recensione del nuovo film di Abdellatif Kechiche
mektoub

Mektoub, My Love: canto uno – la recensione del nuovo film di Abdellatif Kechiche

Mektoub, My Love: canto uno, il sesto lungometraggio del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, è uscito nelle sale italiane, dopo essere stato presentato alla 74esima edizione del Festival del Cinema di Venezia.

Mektoub, My Love: canto uno: la sinossi

mektoubEstate del 1994: il giovane Amin (il debuttante Shaïn Boumedine), ex studente di medicina, aspirante sceneggiatore e appassionato di fotografia vivacchia facendo il cameriere a Parigi. Durante l’estate torna a Sète, la sua città natale del sud della Francia, per trascorrervi le vacanze. Amin passa la stagione estiva dedicandosi alla fotografia, frequentando il ristorante tunisino di famiglia, ritrovando gli amici d’infanzia e due ragazze aggiuntesi alla combriccola locale, Charlotte (Alexia Chardard) e Céline (Lou Luttiau). Sarà un’estate all’insegna del divertimento, tra le giornate trascorse in spiaggia, le serate al bar e in discoteca. 

Mektoub, My Love: canto uno: le nostre impressioni

A cinque anni di distanza da La vita di Adele, Kechiche torna a far parlare di sé con un lungometraggio di tre ore vagamente ispirato al romanzo di Francois Bégaudeau La Blessure, la vraie. 

mektoubNell’economia globale dei lavori di Kechiche, Mektoub rappresenta certamente un punto di svolta: l’ablazione del background etnico e del contesto sociale-culturale, temi centrali di Tutta colpa di Voltaire (2000) e de La schivata (2003), è indice di un’evoluzione nella poetica del regista franco-tunisino. Infatti, il cinéma vérité di Mektoub, My Love è avulso da ogni vis polemica e da ogni desiderio di denuncia sociale. Non è quindi riduttivo affermare che questo sesto lungometraggio ‘si limita’ a mostrare — anzi, a fotografare — l’educazione sentimentale estiva di alcune vite in divenire. 

Non c’è niente di più banale di un amore estivo per chi l’osserva. Non c’è niente di più intenso di un amore estivo per chi lo vive. Ce lo dice Kechiche, lo rettifica Amin. Come rappresentarlo allora? Il riflessivo Amin ci prova attraverso la fotografia. Da dietro l’obbiettivo di Amin — il solo personaggio che non si lascia fagocitare dal Mektoub, il destino, lo slancio vitale —, lo spettatore vedrà trascorrere l’estate, così come trascorre la vita: senza picchi di pathos, senza strutture narrative, senza colpi di scena. Come Amin, lo spettatore è il testimone passivo delle dinamiche amorose che s’instaurano nell’effimero e abbacinante microcosmo di Sète.

Sono il torpore estivo e la luce accecante della costa mediterranea a determinare questo universo vitalistico abitato dai personaggi di Mektoub. Un universo rappresentato sullo schermo come una bolla esistenziale, un’interruzione momentanea della realtà. Il matrimonio è infatti ancora così lontano per Ofélia (Ophélie Bau), così come la vita monotona e monocroma della capitale sembra così distante ad Amin. Meglio quindi non pensarci, meglio spassarsela, come suggerisce la mamma di Amin (Delinda Kechiche).

In quest’interruzione del reale che è l’estate-al-mare di Kechiche, l’esasperazione del desiderio è il perno della non-narrazione. Nella scena di apertura, Amin spia dalla finestra l’amplesso tra Ofélia e Tony (Salim Kechiouche): la sequenza è palesemente una prefigurazione della posizione voyeristica che lo spettatore assumerà per tutta la durata del film. 

Lo stile naturalista che caratterizza la filmografia di Kechiche è invece riproposto nella rappresentazione di queste cronache di amori estivi. Il realizzatore ripudia la logica della narrativa filmica classica, per dedicarsi alla riproduzione anarchica della grammatica relazionale dei personaggi che annulla la distanza tra schermo e spettatore. Ancora una volta, nell’estetica di Kechiche, la mostrazione sottende la narrazione per presentare allo spettatore una vera e propria mimesi del reale.

mektoubLa camera impudente osserva e riporta con dovizia le espressioni della sensualità e il desiderio di carnalità dei giovani spensierati; i numerosi (forse troppi?) primi piani, avidi dei corpi e dei volti femminili, corroborati da sequenze vagamente sorrentiniane — come il parto gemellare di una pecora — vogliono essere una glorificazione di questa giovinezza dionisiaca, destinata a svanire come ciclicamente svanisce l’estate. 

Formattati da un cinema narrativo che impone allo spettatore un’interpretazione sistematica, spingendolo alla ricerca di un messaggio nascosto, di un deuxième degré o di una morale finale, siamo dunque spinti a chiederci cosa voglia comunicarci Mektub, My Love: canto uno.

Qual è infine il senso ultimo di queste cronache di amori estivi inconcludenti? Si tratta di un’ode all’edonismo? Oppure, di una rivendicazione della libertà compositiva? Forse, entrambe le riposte sono legittime.

In ogni caso, lungi dall’essere una mera provocazione, Mektoub vuole rappresentare l’apoteosi di uno slancio vitale e dionisiaco. Rappresentazione che, però, risulta stancante. L’ambizione di riportare la realtà sullo schermo attraverso elementi come le insistenti inquadrature sui corpi femminili, i dialoghi fin troppo realistici, talvolta inconcludenti, e le interminabili sequenze di danze sfrenate risultano alla lunga esasperanti e artificiosi, specialmente nel momento in cui vengono dilati in tre ore di film.

Ma è l’arte che imita la vita, si potrebbe obbiettare. Ebbene, la vita, ahinoi, è spesso noiosa.

Mektoub, My Love: canto uno

valutazione globale - 7

7

Le cronache di un’educazione sentimentale lunga un’estate

User Rating: 5 ( 1 votes)

Un giudizio in sintesi 

mektoubMektoub, My Love: canto uno è il primo capitolo di una storia sull’educazione sentimentale di un gruppo di giovani che trascorrono l’estate in un villaggio in riva al mare. Abdellatif Kechiche vuole riportare la realtà  sullo schermo adottando lo stile crudo e naturalista che caratterizza la sua produzione; il film ha l’ambizione di dipingere lo slancio edonistico e sensuale della giovinezza, di cui la stagione estiva si fa metonimia. Il risultato finale è un lungometraggio di tre ore che mostra le dinamiche relazionali di un gruppo di ragazzi nella loro quotidianità, senza però curare l’aspetto narrativo della trama; se la pellicola riesce effettivamente a restituire allo spettatore un più che verosimile spaccato di vita, non si può nascondere che l’effetto di mimesi della realtà risulti a tratti pesante e affettato.

Per ogni notizia e aggiornamento sul mondo dello spettacolo, cinema, tv e libri, vi consigliamo di seguire la nostra pagina Facebook

About Anna Mistrorigo

One comment

  1. Daniele Marseglia

    Un film di una bellezza incredibile. Attendo con ansia il Canto Due.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *