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Disobedience

Disobedience: la recensione del nuovo film di Sebastián Lelio

Disobedience è il titolo dell’ultimo film di Sebastián Lelio, presentato al Toronto Film Festival nel 2017. Nel cast figurano Rachel Weisz, Rachel McAdams ed Alessandro Nivola.

Disobedience: La trama

Rachel WeiszAlla notizia della morte del padre, uno stimato rabbino della comunità ebraica ortodossa di Londra, Ronit Krushka (Weisz) fa ritorno nel Regno Unito. Qui ritrova Dovid (Nivola), erede spirituale del padre, ed Esti (McAdams), sua moglie, con la quale in passato c’era stata una liason che aveva destato lo scandalo nella comunità. Tra vecchi ricordi, tensioni e sentimenti mai sopiti, il legame tra le due donne evolverà e metterà a repentaglio ogni equilibrio.

Disobedience: le nostre impressioni

Dopo l’Oscar conquistato nel 2018 con Una donna fantastica, incentrato sulla storia di un trans in cerca di affermazione, Sebastián Lelio adatta l’omonimo romanzo di Naomi Alderman e torna ad affrontare una vicenda scomoda, sebbene abbastanza consueta, cioè quella dell’attrazione tra due donne. Il regista cileno forza i toni, rendendo quest’attrazione ancor più pericolosa e scabrosa per via della cornice socio-culturale che fa da opprimente sfondo alla vicenda, ossia una comunità ebraica dipinta come la quintessenza del bigottismo e dell’inflessibile ortodossia.

DisobedienceLa tematica del film è incentrata sul concetto di libero arbitrio: l’uomo, teso tra le bestie e gli angeli, deve decidere in coscienza da che parte stare. Lo spazio chiuso, bigotto e retrivo della sinagoga, non è altro che il confine visibile – anche in senso geografico – della mortificazione corporale, dell’assoluta mancanza di libertà, della menzogna “necessaria” alla sopravvivenza. Ronit ed Esti ne rappresentano lo stereotipato risultato, sebbene opposto: da un lato colei che si ribella e fugge; dall’altro, colei che accetta la tradizione e resta, anche a costo dell’apparente infelicità. La loro attrazione non può che mettere in seria crisi l’impermeabilità di questo confine, che cessa di essere sociale, culturale o religioso, ed assume i toni di un’emancipazione sì femminile, ma universalmente condivisibile, dove è impossibile non parteggiare per le oppresse. In questa sorta di universalismo, Lelio ha gioco fin troppo facile nel trainare lo spettatore “dalla parte giusta”, ma ciò che delude è proprio questo meccanismo a somma zero, dove per lo più mancano quelle zone grigie che conferirebbero un fascino più autentico al dramma psicologico.

A deludere ulteriormente, in Disobedience, è la complessiva mancanza di trasporto emotivo, la quasi totale assenza di mordente del tono, complice quel manicheismo di fondo che impedisce allo spettatore di mettere realmente in discussione non solo i personaggi, la cui trattazione è alquanto approssimativa e poco interessante, ma anche sé stesso, a causa di uno schematismo troppo semplicistico. Specie nella prima parte del film, la vicenda si trascina con immensa fatica e si impantana in mille sospiri che ingolfano l’incedere della narrazione. In qualche momento, addirittura, le scene risultano ampiamente scolastiche e prevedibili (l’immancabile doccia che segue un senso di colpa, fondato o meno che sia), quando del tutto non credibili (ci riferiamo ad enormi approssimazioni di girato, per usare un eufemismo). Di là dalla retorica, Lelio sembra sempre sul punto di voler detonare l’ordigno, ma alla fine tutto resta sommesso, pacificato, accettato con una frustrata (e frustrante) sottomissione.

Rachel McAdams in DisobedienceLa narrazione piatta, ed a tratti anzi decisamente monotona, non emoziona mai. Ma quel che è peggio, è il messaggio che il regista lascia trapelare: la supposta insubordinazione alla quale il titolo del film fa riferimento, la Disobedience esistenziale alla quale la frustrata Esti aspira, non si dispiega mai con pienezza. Nel climax del film, pare addirittura che l’emancipazione di Esti debba passare necessariamente da una specie di autorizzazione o validazione maschile, il che, a nostro avviso, non fa che banalizzare, depotenziandolo, il messaggio filmico.

Persino nelle scene più spinte di Disobedience, nelle quali la Weisz e la McAdams si trovano a simulare un rapporto sessuale, l’opera trasuda incompiutezza, specie se si tengono a mente il pathos e la concitazione di un Kechiche in La vita di Adele. Nulla può essere comunque rimproverato alle due attrici, sempre in parte e abbastanza credibili. La Weisz, in ogni caso, appare perfettamente a  suo agio in ogni scena, e sfodera un’intensità non trascurabile. Il personaggio di Dovid, interpretato dal bravissimo Nivola, risulta quello più convincente, scisso tra i dogmi di una tradizione che ama e lo scandalo di una donna, sua moglie Esti, che a causa della sua scabrosa passione mette a repentaglio la sua posizione di rabbino in seno alla comunità.

La fotografia di Disobedience, mai sopra le righe ma neppure approssimativa, è grigia quanto basta per rendere tanto la claustrofobica pressione di una tradizione ingessata e invalidante, quanto – nostro malgrado – il tono complessivo dell’opera. Che, in verità, avrebbe avuto molto altro da dire, e in modi di certo più convincenti.

Disobedience: giudizio in sintesi

Rachel Weisz e Rachel McAdams in DisobedienceCon Disobedience, Sebastián Lelio torna ad affrontare una storia complicata: quella di una passione tra due donne. L’operazione, tuttavia, resta sempre a livello epidermico. A nulla giova il manicheismo di una contrapposizione tra la retriva comunità ebraica della quale le donne fanno parte, e la legittima aspirazione all’emancipazione. Il tono è piatto, il ritmo claudicante, con dialoghi spesso banali e scene gravemente prevedibili. La storia dell’amore tormentato, specie tra due donne, non solo non costituisce alcuna novità di rilievo nel panorama cinematografico contemporaneo, ma è stato affrontato in modi decisamente più convincenti e diremmo viscerali in altre opere. Il messaggio finale, inoltre, pare procedere in direzione incredibilmente opposta, contraria a tutte le premesse del film, lasciando presagire comunque una legittimazione maschile su un discorso – in teoria – prettamente femminile. Ottima, come sempre, la prova di Rachel Weisz, ben accompagnata dalla McAdams e da un intenso Nivola, il cui personaggio è trattato in maniera sbrigativa. Un vero peccato.

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About Vito Piazza

Tutto inizia con Jurassic Park, e il sogno di un bambino di voler "fare i film", senza sapere nemmeno cosa significasse. Col tempo la passione diventa patologica, colpa prevalentemente di Kubrick, Lynch, Haneke, Von Trier e decine di altri. E con la consapevolezza incrollabile che, come diceva il maestro: "Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato".

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