Beirut, ultima opera di Brad Anderson, è un film distribuito da Netflix e disponibile sulla piattaforma dal 15 giugno: presentato al Sundance Film Festival del 2018, ha come protagonisti Jon Hamm e Rosamund Pike.
Beirut: la sinossi
Diplomatico statunitense in servizio a Beirut, Mason Skiles (Jon Hamm) è un uomo di successo: si è inserito perfettamente nel mondo mediorientale, ed insieme alla moglie Nadia progetta di adottare il piccolo Karim, un orfano palestinese. Ma la capitale del Libano, agli inizi degli anni 70, è una polveriera pronta a saltare in aria. In seguito ad uno scontro a fuoco, Nadia viene uccisa e Karim viene sequestrato. Mason fa così ritorno negli Stati Uniti, in preda alla depressione ed all’alcol. Finché un giorno, a distanza di anni, viene improvvisamente richiamato in Libano per negoziare la liberazione di un vecchio amico, ostaggio dei guerriglieri. Skiles sarà costretto a fare i conti con una vita che credeva ormai terminata.
Beirut: le nostre impressioni
Classico film di spionaggio, l’opera di Brad Anderson rispetta fedelmente – e forse pedissequamente – ogni stilema del genere d’appartenenza: c’è il tipico scenario mediorientale, dove nessuno può fidarsi di nessuno; ci sono i personaggi buoni e tormentati, quelli loschi e quelli cattivi; c’è il consueto aggancio tra le storie personali dei protagonisti e la Storia dei manuali, entrambe reciprocamente funzionali; e c’è, infine, lo scontato lieto fine. Beirut svolge diligentemente il proprio compito, ma non fa altro che riproporre un film già visto innumerevoli volte.
Anderson inizia molto bene calibrando il film nella Beirut dei primi anni ’70, e coglie nel segno mostrando lo iato tra la casta diplomatica (occidentale, occidentalizzata e comunque benestante) rinchiusa in ville sfarzose, ed il mondo esterno che vi irrompe con prepotenza, lasciando presagire il dramma della futura guerra civile. Lo sgomento, la violenza, il dolore e la concitazione che si respirano nei primi minuti rendono benissimo l’idea di un paese sull’orlo del collasso.
Purtroppo le premesse iniziali non evolvono verso uno sviluppo all’altezza: troppo abusato il tema dell’uomo che annega il dolore nel bourbon, o che si guadagna da vivere seguendo il proprio istinto (in questo caso, una vocazione diplomatica che spinge il protagonista a cercare di dirimere controversie legali di poco conto in patria). Così come ovvio risulta l’espediente narrativo che vede un vecchio amico di Skiles ostaggio dei cattivi, dietro i quali, immancabilmente, si cela sempre qualche vecchia conoscenza del protagonista di turno. Nel calderone di Beirut, immancabili, i sensi di colpa e il solito tormento del passato, che inseguono un protagonista descritto in maniera abbastanza superficiale.
La prova degli attori protagonisti, pur non essendo straordinaria, è comunque sufficiente. Jon Hamm, talvolta un po’ troppo compassato, nel complesso risulta abbastanza credibile in qualità di eroe segnato dal dolore, disincantato ma risoluto. Ma è soprattutto il personaggio interpretato da Rosamund Pike a restituire una coprotagonista meglio sfaccettata, forte e pragmatica, a conferma delle straordinarie capacità mimetiche dell’attrice britannica in ruoli femminili mai subalterni (basti ricordare i recenti Hostiles e Gone Girl). Complice una fotografia monotona, che tenta invano di sopperire alla pochezza della trama con qualche inquadratura ai limiti dell’affettazione, il film si mantiene nel solco delle solite storie di spionaggio con qualche micro-ibridazione di thriller, ma neppure gli artifici tecnici ne risollevano le sorti già ampiamente previste e prevedibili.
Al di là di ogni considerazione, ciò che in Beirut manca davvero è la profondità e la complessità della trama. Il contesto storico al centro della pellicola, cioè il Libano della guerra civile, nel quale gli attori più diversi (americani, israeliani, libanesi, Olp) si scontrarono per quindici lunghi anni, avrebbe potuto offrire più di uno spunto per una riflessione più approfondita delle vicende, dei personaggi e dei moventi delle opposte fazioni in gioco. Ma Brad Anderson risulta colpevole solo a metà per questa generalizzata superficialità. Probabilmente, le cause di questo parziale fiasco vanno ricercate nella complicatissima genesi del film, specie alla sceneggiatura di Tony Gilroy (autore, tra l’altro, della saga Bourne), pronta già agli inizi degli anni ’90 ma riesumata dopo quasi un ventennio dalla produzione. Che, forse non del tutto a torto, non ha mostrato una grande fiducia in una pellicola uguale a tante altre.
Beirut
valutazione globale - 5
5
Epidermico e scontato, fin troppo canonico
Beirut: un giudizio in sintesi
Beirut affronta lo spinoso problema della guerra civile libanese, cercando – come di consueto per il genere di spionaggio con venature di thriller – di ancorare la storia dei manuali con quella dei singoli personaggi. Tentativo, in questo caso, parzialmente fallito: il film non scende mai sotto il livello epidermico; offre situazioni, dialoghi e personaggi ampiamente visti e rivisti; non problematizza un contesto storico che, per sua natura, avrebbe potuto essere molto più sfaccettato. Nel suo limitarsi al confezionamento di un prodotto standardizzato, Beirut insiste sui soliti temi correlati alla guerra: il dolore e la colpa, gli scenari che cambiano continuamente al mutare delle (presunte) alleanze; infine, l’immancabile e scontatissimo lieto fine.
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