BlacKkKlansman è il nuovo film di Spike Lee, presentato al Festival di Cannes 2018, dove è stato premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria. Il film è tratto da una singolare storia vera.
BlacKkKlansman: la sinossi
Colorado Springs, anni ’70. Un giovane ragazzo di colore, Ron Stallworth (interpretato da John David Washington) vuole entrar a far parte del corpo degli agenti di polizia. Accettato nella caserma di polizia locale, il novellino viene subito segregato nell’archivio, dove però non si sente affatto realizzato. Sicuro delle sue capacità, insiste di essere più operativo e viene scelto come agente sotto copertura per raccogliere informazioni su Kwame Ture, leader del Movimento per i Diritti Civili. Al suo discorso pubblico conosce Patrice, presidentessa dell’unione degli studenti neri del Colorado College. Poco dopo Ron decide di avviare delle investigazioni sul KKK, spacciandosi al telefono come un aspirante membro dell’organizzazione.
BlacKkKlansman: le nostre impressioni
Spike Lee torna a far tuonare la sua voce polemica ed impegnata sul grande schermo. Due anni fa ci aveva provato con Chi-Raq, un musical ispirato molto liberamente alla Lisistrata di Aristofane e riadattato con un approccio di denuncia sociale nella violenta Chicago dei giorni nostri, un film ingiustamente snobbato dalla distribuzione italiana. Ma con BlacKkKlansman Spike Lee torna a parlare forte e chiaro, come se i dati delle vittime della violenza cittadina proiettati a caratteri cubitali all’inizio di Chi-Raq non fossero stati sufficienti: “tratto da una fo***ta storia vera”, ecco come veniamo introdotti alla materia del suo nuovo lavoro.
Sprezzante, tagliente, ironico e profondamente impegnato, BlacKkKlansman ci racconta una storia che dice molto sulla situazione sociale e politica dell’America contemporanea. Razzismo, odio, violenza verbale e fisica: tanti sono nel film i personaggi che assumono questo atteggiamento, chi più e chi meno. L’approccio tollerante di chi si vanta di voler fare la differenza, quale è quello assunto dal capo della polizia davanti all’assunzione di Ron, si dimostra in tutta la sua ipocrita struttura. Anche se, come recita lo striscione davanti alla caserma, le minoranze sono caldamente invitate a candidarsi per entrare nel corpo di polizia, l’atteggiamento di fondo è un altro: si tollera qualcosa che dà comunque fastidio, qualcuno che per la sua sola appartenenza ad una categoria sociale viene disprezzato e deriso. Così come abbiamo già visto quest’anno in Tre manifesti a Ebbing, Missouri, in cui il fatto che il nuovo capo della polizia sia un nero non sradica il razzismo di fondo degli agenti, l’atteggiamento degli altri agenti nei confronti del nuovo collega (mancanza di rispetto, provocazioni, battute, sguardi di disprezzo) dimostra la resistenza di un razzismo viscerale e difficile da cancellare. Per questo uno degli agenti che ferma Patrice e Kwame approfitta della sua posizione per concedersi insulti e abusi d’ufficio, per questo degli altri agenti fermano e pestano Ron nonostante egli dica loro di essere un detective sotto copertura.
E poi c’è il KKK. Niente di più spassoso che prendersi gioco di un’organizzazione fondata sull’odio delle due minoranze per eccellenza: i negri e gli ebrei. Ed è quello che fa Ron, spacciandosi al telefono come un aspirante membro dell’organizzazione. Qui entra in gioco la figura di Flip (Adam Driver), incaricato di prendere lui l’identità di Ron in presenza dei membri del KKK. Sia Ron sia Flip devono negare la propria identità per stabilire un contatto con il klan, proprio loro che sarebbero le due vittime perfette per i mirini dell’odio dell’organizzazione, un negro e un ebreo. Dai loro contatti con il KKK emerge un discorso terribilmente reale, come la storia stessa ha dimostrato nel corso dei secoli: il fatto che esista un insieme di categorie sociali perseguitate fa sì che queste ultime siano aproblematicamente interscambiabili. “Prima eliminiamo i negri e poi gli ebrei”, questa è la filosofia di Felix, uno dei membri più radicali del KKK della regione.
Ebbene, Spike Lee ci racconta queste due forme di razzismo, quello sotterraneo e della violenza verbale e quello della violenza fisica vera e propria, entrambi estremamente pericolosi per i risvolti politici che possono avere. A dimostrarcelo è la figura di David Duke, ex membro del klan e aspirante uomo di politica che recentemente ha ricominciato ad essere nuovamente preso sul serio. Tutto questo odio ha una fine? BlacKkKlansman ci dimostra che non è così semplice. Si può ridere, ridicolizzare delle posizioni radicali di questo tipo ed è quello che fa Spike Lee, ma per quanto il suo approccio alla questione sia provocatoriamente ironico, egli non rinuncia all’inserimento di riferimenti espliciti alla situazione attuale: filmati di parate razziste, di discorsi di Trump e di Charlottesville sono sufficienti a rispondere all’ingenua domanda. Un interessante spiraglio di concreta speranza di cambiamento viene incarnato però dal personaggio di Flip, che non si è mai sentito veramente ebreo, ma che davanti a tutto quell’odio ripensa alla sua identità in maniera più analitica e critica.
Nonostante la gravità delle tematiche e degli innumerevoli spunti di analisi sociale che vengono inevitabilmente offerti, così come i preziosi riferimenti alla storia del cinema (in primis The Birth of a Nation di David Griffith), il talento di Spike Lee permette di confezionare un film estremamente piacevole e divertente, in cui si concede non poche libertà estetiche prettamente postmoderne, come l’inserimento di locandine di film e personaggi dello spettacolo di quegli anni e non solo. Unica pecca della visione, come spesso accade con i film doppiati, è l’impossibilità di apprezzare il lavoro degli attori sulla voce e sulla lingua, che in BlacKkKlansman ha un ruolo non indifferente nello scambio di personalità e identità, così come anche nella sottolineata differenza tra lo slang delle persone di colore e l’inglese corrente.
BlacKkKlansman
valutazione globale - 8
8
ironico e importante
BlacKkKlansman: giudizio in sintesi
BlacKkKlansman è un film che diverte e fa riflettere sulla terribile attualità del razzismo nell’America contemporanea. Nonostante si tratti di una storia vera con riferimenti a personaggi reali e ancora presenti nello scenario politico attuale, nonostante gli spunti di riflessione siano innumerevoli e di grandissima rilevanza, Spike Lee riesce ad impacchettare un lavoro socialmente impegnato con una regia fresca e postmoderna. Il ritmo non manca, i riferimenti alla storia del cinema, alla storia del cinema impegnato, ma anche alla cultura pop e non solo non fanno che impreziosire un’opera che, alla luce delle vicende politiche di ieri e di oggi, si dimostra davvero notevole e importante.
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