Mindhunter segna lo sbarco su Netflix di uno degli autori cinematografici più apprezzati degli ultimi vent’anni, dal suo primo successo con Seven, fino al più recente Gone Girl. Qui vogliamo dare la nostra impressione sui primi tre episodi della nuova serie TV.
Mindhunter: la sinossi
Siamo alla fine degli anni 70, in un momento di grande cambiamento per la società americana e anche l’FBI inizia a cambiare, così come è cambiato il mondo del crimine, con l’emergere sempre più prorompente di delitti perpetrati da quelli che la società chiama “mostri” ma non ancora “serial killer”. In questo mondo, gli agenti Ford (Jonathan Groff) e Tench (Holt McCallany) iniziano a muovere i primi passi nel definire quella che sarà la moderna psicologia criminale, e lo fanno andando a parlare con la fonte di tutto questo male, i più efferati assassini a quel tempo rinchiusi in carcere.
Mindhunter: le nostre impressioni sulla narrazione
Sgombriamo subito il campo: Mindhunter è una serie TV difficile da seguire e non sarà sicuramente destinata ad un pubblico “ampio” perché, nonostante l’argomento serial killer sia uno di quelli che attirano morbosamente l’attenzione degli spettatori, qui non ci troviamo davanti ad un procedurale con l’assassino di settimana da arrestare, non siamo in CSI o NCIS, e non sembra nemmeno essere dato troppo rilievo in questi primi episodi, anche se un esca viene lanciata nell’incipit del secondo e terzo, ad un caso che si dispieghi sull’intera stagione.
No, l’interesse e quello che vuole raccontare Mindhunter sono ben altro: la storia di questo show, quantomeno nel plot più generale, vuole raccontare un momento di profondo cambiamento nella visione del mondo e del crimine in particolare e vuole essere un profondo approfondimento psicologico sulla natura umana e su quelle che potremmo definire semplicisticamente aberrazioni o deviazioni. La serie vuole portarci, insieme agli agenti Ford e Tench dentro la mente di questi criminali efferati e per farlo cerca di costruire una certa sorta di empatia tra lo spettatore e il serial killer, il che, alla lunga, rende questo approccio disturbante.
Ma attenzione: con disturbante non intendo certamente un atto di rendere la visione poco piacevole, ma è un livello di disagio più profondo e costruito, ossia quello di far scendere lo spettatore in un abisso profondo facendogli sembrare il viaggio “confortevole”, per poi lasciarlo stupito e scosso nel chiedersi il perché di tanto confort nel trovarsi in un posto così buio e spaventoso. Ma questa tecnica è un puro transfer, perché per capire e poter seriamente combattere questa tipologia di crimine, non affrontabile con logiche standard, diventa necessario calarsi in un mondo mentale alieno, indebolendo le proprie barriere logiche e morali, che altrimenti ne preverrebbero la comprensione ed è questo che fanno i protagonisti in scena ed è questo che viene proposto e chiesto allo spettatore.
Se questa modalità comporta una raffinatezza elevata nella costruzione e nella narrazione, anche i dialoghi sono intensi e profondi, ma troppo spesso complessi e impetuosi nel loro scorrere e accavallarsi uno sull’altro. Allo spettatore viene richiesto un livello d’attenzione e preparazione notevoli, per non trovarsi a navigare al buio in questo fiume in piena, il che non è una cosa negativa in sé, però seleziona notevolmente all’entrata, portando questa serie, decisamente interessante, a posizionarsi in una catalogazione di nicchia.
Mindhunter - primi episodi
Valutazione globale - 7.5
7.5
Un viaggio psicologico complesso e affascinante
Mindhunter: le nostre impressioni su regia e attori
Mindhunter, come abbiamo visto, è ambientato negli anni 70 e Fincher, che ne costruisce l’avvio stando alla regia dei primi due episodi, imprime alle scelte stilistiche una caratterizzazione che richiama profondamente il periodo che racconta (un esempio evidente sono le scritte in sovrimpressione che danno le coordinate sul dove ci troviamo), cercando così di trasmettere allo spettatore la sensazione di immedesimazione nel narrato e volendo allo stesso tempo creare questa aura documentaristica, anche per affermare forte e chiaro che sta portando sullo schermo una storia tratta dal libro di memorie di John Douglas, innovatore e ideatore del crimial profiling, che contiene tutti fatti realmente accaduti e documentati dallo stesso autore, in lunghi anni di discussioni con i peggiori serial killer della storia americana.
La regia, connotata da queste due forti impronte, cerca anche di dare ritmo ad una narrazione che difficilmente lo avrebbe di suo, come c’è una apprezzabilissima capacità di creare tensione in momenti che non hanno nulla di minaccioso, come i colloqui in carcere ad esempio, ma che trasmettono brividi allo spettatore, anche grazie a musica, inquadrature e ritmo del dialogo che accelera e rallenta per costruire sensazioni diverse in chi guarda.
Parte della buona riuscita si deve sicuramente anche all’ottima prova attoriale di Holt McCallany e, soprattutto, di Jonathan Groff, che non solo interpretano molto bene i loro personaggi, separatamente, ma trasmettono una grandissima fluidità al racconto quando sono inieme, con una naturalezza decisamente positiva.
Nota a margine: ho trovato stupenda la sigla con queste immagini pseudo subliminali che simboleggiano l’immersione mentale dello spettatore nei recessi di tutto questo male.
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