The Handmaid’s Tale è giunto questa settimana alla conclusione del suo primo capitolo che ha colpito molto duramente le coscienze di tutti noi spettatori, portandoci all’interno di una visione cupa e distopica di uno scenario che possiamo definire certamente come un’iperbole narrativa ma il cui messaggio risuona forte e chiaro nelle nostre menti.
The Handmaid’s Tale e un mondo di oppressi
Lo show tratto dal racconto omonimo di Margaret Atwood ci trasporta in un mondo di oppressione, nel quale anche la speranza è ormai solo un ricordo. Un mondo “morente” per il bassissimo tasso di natalità e per le devastazioni ambientali, nel quale una frangia di integralisti esaltati prende il potere in nome di una utopica società migliore (“migliore non per tutti”) che si basa su una distorta visione della religione e dei valori, trasformandoli da fattore positivo a discriminante oppressiva. Un mondo nel quale sotto all’elité dominante, striscia e sopravvive un’umanità martoriata e privata della sua stessa dignità.
The Handmaid’s Tale inizia infilandosi nel solco della narrazione Orwelliana, mostrandoci la completa perdita di speranza e la futilità della disperazione, senza filtri, senza lati positivi, solo sofferenza e umiliazione. La condizione oppressiva della donna è solo il focus principale, mentre ai margini osserviamo anche come tutte le altre categorie, che siano minoranze o solamente avversi al potere, vengano martoriate. Ne percepiamo solo la strage, per i macabri dettagli dei cadaveri appesi sul lungofiume o ai lampioni, o grazie ai racconti dei sopravvissuti e ai flashback ben incastrati nel racconto, ma non servono a diminuire il carico di orrore che la storia trasmette.
La serie, però, a differenza di racconti come 1984, continua a mantenere un margine di speranza, in una ribellione a volte sanguinolenta e a volte silenziosa, al gesto del rifiuto, come splendidamente rappresentato nell’ultimo episodio della stagione. Il rifiutarsi di chinare la testa, quando si è inermi davanti al nemico, rappresenta il più grande atto di libertà e la sfida che fa maggiormente male alla dittatura, è la perdita del potere del terrore, non dovuto al coraggio, ma al totale annientamento della speranza, momento in cui riemerge quell’io che non accetta di farsi spogliare anche dell’ultimo barlume di sé.
Il monito di The Handmaid’s Tale
Il monito che lo show ci vuole dare è comune nel racconto distopico: il male, come la storia ci dimostra, spesso di annida nelle buone intenzioni, travisate da un branco di esaltati, che antepongono la salvezza dell’umanità all’umanità stessa. The Handmaid’s Tale ci invita a riflettere sul fatto che non ci sono e non possono esserci ragioni che giustifichino la soppressione della libertà e del diverso e ci fa vedere come alcune idee, nemmeno troppo lontane da un certo sentire comune, possano essere solo l’inizio della discesa che ci porta nel baratro.
L’intensità degli interpreti aiuta molto a immergersi in questo racconto e, se anche spesso molto è sulle spalle di una Elisabeth Moss che si candida a sbaragliare la concorrenza per gli Emmy, anche le altre donne di contorno portano un intensità incredibile in scena: Madeline Brewer, Alexis Bledel, Samira Wiley sono tutti pezzi di un mosaico che hanno ognuna la capacità di trasmettere sulla pelle dello spettatore tutto lo strazio del loro vivere, tutte le umiliazioni e le sofferenze che a volte tracimano in rassegnazione e sconfitta.
Restano emblematiche scene come quella successiva al processo della Bledel, lo shaming effettuato ai danni della Brewer e la sua scena sul ponte, il dialogo tra la Moss e la Wiley nella “casa del piacere”.
Gli uomini, oppressori od oppressi, restano molto più ai margini della narrazione e quando ci sono sono figure più grigie, quando sono dispotiche rivelano in realtà anche tutta la loro pochezza, quando sono oppressi si vedono condannati ad una sconfitta certa. Perché The Handmaid’s Tale vuole anche raccontare la forza delle donne, la loro determinazione, anche se costrette a posizioni umili, anche in quelle occasioni nelle quali, pur facendo parte dell’elité, sono costrette ad una funzione subalterna, ma dimostrano una maggiore fermezza dei loro stessi mariti.
The Handmaid’s Tale e i rifugiati
Una questione che invece deve essere menzionata nel racconto di questa prima stagione, è una questione “minore” e inserita a differenziarsi dal libro originale, ed è quella dei rifugiati.
In un bellissimo e drammatico episodio, vediamo la fuga di Luke e il suo trasformarsi in rifugiato in un Paese straniero, il Canada in questo caso. Ne racconta l’odissea della fuga, la felicità della salvezza e la condizione mai completa che vive un rifugiato. Raccontare questa vicenda mettendo l’americano nei panni di chi scappa e chiede asilo, in questo preciso periodo storico, è una decisione che non posso che definire meravigliosa.
Per ogni notizia e aggiornamento sul mondo dello spettacolo, cinema, tv e libri, vi consigliamo di seguire la nostra pagina Facebook
THe Handmaid's Tale - prima stagione
Valutazione globale
brutale e necessaria