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Circus of Books

Circus of books: recensione del documentario Netflix

Circus of books è il titolo del documentario originale Netflix diretto da Rachel Mason. Presentato in anteprima al Tribeca Film Festival nell’aprile del 2019, è disponibile sulla piattaforma streaming dal 22 aprile.

Circus of books: la trama

Nella Los Angeles del 1982 Karen and Barry Mason, in difficoltà economiche, rilevano una libreria. Iniziano un commercio insolito, quello di materiale gay e pornografico. La loro scelta, avversata da inchieste e comitati governativi, li porta a diventare l’epicentro della comunità gay losangelina, portando i coniugi ad entrare in un business estremamente redditizio. Quest’attività, tuttavia, ha profonde ripercussioni sugli equilibri familiari dei Mason.

Circus of books: le nostre impressioni

I coniugi Mason di Circles of books

Quella narrata in Circus of books da Rachel Mason, figlia dei proprietari della suddetta libreria, è una storia autobiografica abbastanza stratificata. Tutta l’opera gravita intorno ad almeno quattro nuclei tematici che si intersecano costantemente. Il primo, naturalmente, ha a che fare con l’assetto politico-sociale dell’America reaganiana, l’epoca nella quale i coniugi Mason acquisirono i locali per adibirli non solo a libreria per materiale pornografico gay, ma anche a sexy-shop. Il documentario non si discosta dalla fedele ricostruzione storica di un’America dal volto decisamente poco amichevole nei confronti degli omosessuali. Le inchieste governative contro i proprietari del Circus of books sostanziavano un puritanesimo istituzionale che nella migliore delle ipotesi, sul piano sociale, si traduceva in una costante ghettizzazione dei diversi. È questo il livello più manifesto dell’opera della Mason, che tramite i ricordi dei genitori rievoca la consueta storia di emarginazione, di criminali silenzi e omissioni, come quelli mantenuti sulla dilagante piaga dell’AIDS che cominciava ad affliggere la comunità omosessuale. In quest’ottica, sebbene si tratti del livello più manifesto della narrazione, Circus of books si deposita nel calderone sempre più ampio di storie (vere) che trovano spazio come aneddotica aggregata, e che l’umanità si augura di dover ricordare solo come triste retaggio del passato sul quale non occorrerà più tornare.

Dove invece Circus of books vibra più intensamente è ai margini della storia principale, cioè nei due restanti nuclei tematici. Il primo ha a che fare con la sfera più personale ed emotiva della vicenda. Per gli omosessuali di West Hollywood di metà anni 80 la libreria dei Mason non fu solo un luogo dove trovare ogni sorta di rivista, film o aggeggio erotico, ma soprattutto un rifugio. Emotivo, oltre che fisico, dato che tra gli scaffali zeppi di ogni sorta di materiale concepibile era possibile trovare una comunità ben disposta ad accogliere i reietti della società. Primi fra tutti proprio i Mason, che dai racconti di chi li conobbe sul luogo di lavoro emergono come individui estremamente liberi e aperti, anche affabili e affettuosi, visto che offrirono sostegno concreto anche a molti malati terminali di AIDS che erano stati ostracizzati dalle famiglie di provenienza.

La famiglia Mason

Circus of Books, nella sua peculiare forma di documentario “domestico”, si svela anche nella sua veste di strumento terapeutico per l’intera famiglia Mason, che attraverso le domande della regista che è contemporaneamente anche figlia e sorella, analizza i propri delicati equilibri interni. Sta qui, forse, il lato più toccante dell’intero documentario. Karen, la madre, è un’ebrea praticante dal carattere granitico, che deve conciliare i propri dettami religiosi con un mestiere giudicato non solo disdicevole, ma peccaminoso e fuorviante nei confronti dei figli. Barry, il padre, è un piccolo genio degli effetti speciali (ha lavorato anche sul set di 2001: Odissea nello spazio) che oscilla tra ateismo e agnosticismo, che da un lato pare soccombere alle influenze di Karen e dall’altro pare invece la guida saggia e silente della famiglia. Da questo miscuglio, l’analisi dei rapporti familiari assume talvolta contorni inaspettati.

Esiste, infine, un ultimo ma non per questo marginale nucleo tematico all’interno di Circus of Books, che riguarda il lato più spiccatamente editoriale. Riviste, cd, dvd: sono stati questi gli articoli che per trent’anni hanno permesso ai Mason di condurre una vita agiata, sebbene spesso moralmente condannata. Ora che il mondo dell’audiovisivo si è interamente digitalizzato, e che internet ha alterato definitivamente gli equilibri a favore dell’e-commerce, la crisi pare inevitabile, e la chiusura un’opzione alquanto reale. Buffo, forse, che tutto questo venga narrato proprio sui canali di una piattaforma che è, in definitiva, il trionfo dell’immaterialità dei contenuti: Netflix.

Circus of books

valutazione globale - 6

6

Un'opera stratificata e scorrevole

User Rating: 4.7 ( 1 votes)

Circus of books: giudizio in sintesi

Circus of books è un documentario molto stratificato. Nel parlare di una delle prime librerie gay e pornografiche di Los Angeles, e di un’America che sotto la residenza reaganiana vedeva con cattivo occhio gli omosessuali, allarga il campo anche ad altre e più toccanti riflessioni. Le parti più coinvolgenti della narrazione hanno a che fare con l’incredibile (e apparentemente incolmabile) contraddizione incarnata dalla figura della proprietaria, Karen, ebrea osservante eppure proprietaria di un business ritenuto moralmente riprovevole. La libreria diventa un luogo fisico e anche un luogo emotivo e simbolico, capace di scoperchiare non solo una verità storica ormai ben accertata, ma anche di essere un viatico per addentrarsi in delicatissimi equilibri familiari, spesso taciuti. Struggente, a mio avviso, il nucleo tematico che ha a he fare con il lato editoriale dell’intera faccenda, dove l’immaterialità dell’e-commerce (e, in un certo senso, anche quella di Netflix) sta polverizzando attività centrate sulla materialità della vendita. Oggi, più che mai, un ricordo lontano.

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About Vito Piazza

Tutto inizia con Jurassic Park, e il sogno di un bambino di voler "fare i film", senza sapere nemmeno cosa significasse. Col tempo la passione diventa patologica, colpa prevalentemente di Kubrick, Lynch, Haneke, Von Trier e decine di altri. E con la consapevolezza incrollabile che, come diceva il maestro: "Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato".

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