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American Vandal

American Vandal: recensione della serie Netflix che fa satira sul true-crime

Ci sono serie che Netflix pompa più del dovuto, pubblicizzandole ovunque. Alcune di queste, talvolta, si rivelano delle cocenti delusioni. Ci sono altre serie, invece, che Netflix rilascia con il minimo sindacale di promozione e che meritano di essere viste. Uno di questi casi è rappresentato da American Vandal che ha fatto il suo debutto sulla piattaforma di streaming lo scorso 15 settembre. Composta da 8 episodi e ideata dal duo Tony Yacenda e Dan Perrault, American Vandal è una sfacciata satira dai toni grotteschi del genere true-crime.

La trama di American Vandal

American VandalOceanside, California. Nel parcheggio dell’Hanover High School vengono trovate disegnate sulle 27 macchine del corpo docente delle immagini falliche. Ad essere accusato dell’atto di vandalismo è il diplomando Dylan Maxwell, noto per essere uno degli studenti più scapestrati del liceo che, guarda caso, aveva l’abitudine di disegnare sulle lavagne delle classi proprio l’organo di riproduzione maschile. La scuola punta il dito subito contro di lui, grazie anche ad un testimone che afferma di averlo visto sul “luogo del delitto”. Tutti sembrano concordi nell’accusare Dylan, tranne un certo Peter Maldonado che crede alla sua innocenza. Per scagionarlo, con la complicità del suo amico Sam, realizzerà un documentario volto a scoprire la verità e, chissà, trovare il vero colpevole.

Non solo mockumentary

Ognuno degli 8 episodi di American Vandal è costruito come se fosse una vera e propria docu-serie di genere crime. I fatti vengono ricostruiti con video e immagini prese dai social, interviste agli studenti e ai professori e ricostruzioni grafiche. Il format con cui è stato realizzato va ricercato in prodotti come Making a Murder di Netflix o The Jinx della HBO. Se in queste due serie appena citate i protagonisti sono persone esistenti accusate di efferati omicidi, in American Vandal il mistero è del tutto fittizio e viene raccontato con toni che virano fortemente sul grottesco, pur restando fedele al formato del true-crime. Ci troviamo davanti a tutti gli effetti a quello che viene definito un mockumentary, ovvero un falso documentario. Ma fermarsi davanti alla sola definizione di mockumentary sarebbe troppo riduttivo per descrivere questa serie che ha anche una connotazione metanarrativa quando il documentario diventa improvvisamente virale sui social. Vengono così lanciate dal popolo del web hastag come #freeDylan o #ISISdidit e ognuno comincia a farsi una propria opinione a riguardo.

American VandalAmerican Vandal funziona perché nonostante si parli di un atto vandalico talmente surreale e ridicolo i personaggi sono verosimili al cento per cento; così come credibile è anche l’ambiente scolastico in cui si muovono i protagonisti. Ma American Vandal vuole essere anche un qualcosa di più di una semplice e riuscita parodia. C’è una riflessione non affatto scontata e superficiale sul sistema scolastico e culturale americano stracolmo di pregiudizi nei confronti di chi, pur in assenza di prove concrete, viene messo alla berlina solo per avere una reputazione discutibile. Ad aggravare questo aspetto un ruolo di primo piano lo ricoprono i social network che con il loro malsano utilizzo possono provocare effetti indesiderati su chi è più indifeso e ingenuo di altri e finisce schiacciato in un gorgo da cui poi è difficile venirne fuori (Tredici, a riguardo, insegna). L’improvvisa popolarità data dai social corrisponde a volte anche ad una morbosa intrusione nella privacy. A questo riguardo la serie vuole anche mettere in guardia da tutto ciò.

American Vandal è un sapiente lavoro di scrittura da parte del duo Yacenda e Perrault. Netflix, nella sua nuova politica da spendig-review, ha trovato in questa serie un prodotto non tanto originale nel suo formato quanto nel suo contenuto, da scoprire (per chi ancora non l’avesse fatto) e da godersi appieno divertendosi grazie alla genialità e alla cura dei particolari con cui il tutto viene rappresentato.

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About Daniele Marseglia

Ricordo come se fosse oggi la prima volta che misi piede in una sala cinematografica. Era il 1993, film: Jurrasic Park. Da quel momento non ne sono più uscito. Il cinema è la mia droga.

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