When they see us è il titolo della miniserie Netflix diretta da Ava DuVernay e disponibile in piattaforma dal 31 maggio. La regista, nota al pubblico per Selma – La strada per la libertà (2014), dirige un cast numerosissimo, all’interno del quale figurano Vera Farmiga, Chris Chalk, Felicity Huffman, Joshua Jackson e John Leguizamo. When they see us si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto, e che infiammò l’opinione pubblica statunitense sul finire degli anni ’80.
When they see us: la sinossi
Central Park, 19 aprile 1989. La jogger Trisha Meili viene aggredita e violentata. Dell’orrendo crimine vengono ingiustamente accusati quattro ragazzi neri ed uno di origine ispanica provenienti da Harlem, che quella stessa sera, nel medesimo parco, avevano importunato altri passanti. Condotti in carcere e indotti a sottoscrivere false testimonianze, Antron McCray, Yusef Salaam, Raymond Santana, Kevin Richardson e Korey Wise diverranno loro malgrado protagonisti di un caso legale e mediatico dall’eco nazionale.
When they see us: le nostre impressioni
Ispirato al famosissimo caso giudiziario di Trisha Meili, When they see us sprigiona una forza emotiva inversamente proporzionale al proprio format. Si tratta di quattro puntate ben strutturate ed avvincenti, ognuna delle quali esaurisce un preciso arco di vita dei protagonisti: a partire dalla notte dell’aggressione alla Meili, passando per il processo e per la vita in carcere, e finendo poi con le conseguenze delle infamanti accuse sulla vita dei protagonisti una volta finito il calvario delle aule di tribunale e delle prigioni. Tutto è narrato e filmato all’insegna di una drammatizzazione contenuta ma non per questo sbiadita, banale o edulcorata. La ricostruzione del caso giudiziario non cede al documentarismo, e la narrazione della DuVernay non soffre mai di tempi morti né di cedimenti verso la prolissità o, peggio, verso l’ovvietà.
When they see us è soprattutto una serie sul razzismo. Più precisamente, sulla tipologia di discriminazione più insidiosa da riconoscere e combattere, proprio perché normalizzata e silenziata da una presunzione riconoscibile solo tardivamente. Quella di Korey, Yusef, Raymond, Kevin e Antron è la storia di un caso eclatante di criminosa amministrazione della giustizia, di un pregiudizio razziale che negli Stati Uniti contemporanei squarcia il velo sull’utopistica e pretenziosa parità di diritti e trattamento tra neri e bianchi. Che la storia abbia avuto luogo sul finire degli anni ’80 lascia ancor più sgomento il pubblico, date le evidenti, incredibili (ma allora ignote) infrazioni alle norme in materia di interrogatorio e produzione delle prove, così come la natura puramente indiziaria delle accuse.
In forma diversa, Ava DuVernay torna sui passi di Selma – La strada per la libertà, esplorando la tematica razzista per gettare uno sguardo tutt’altro che pacificato o conciliante sul proprio paese. Segno di una tendenza poetica che, al di là della retorica, scorge in maniera ben chiara le linee di faglia sociali (ossia, razziali) che dividono nel profondo il paese a stelle e strisce. A colpire, in When they see us, è un coraggio che sfiora la sfrontatezza, nel momento in cui la regista sceglie di includere nel girato alcune registrazioni video di un giovane Donald Trump, il quale, indignato dalla vicenda, arrivava a chiedere la pena capitale per i giovanissimi protagonisti della vicenda-Meili.
La storia di When they see us è anche una storia a suo modo claustrofobica, raccontata all’insegna di un paradosso. Allestendo un racconto non focalizzato, in cui il narratore mostra sin da subito i fatti in maniera inequivocabile, Ava DuVernay mette lo spettatore al corrente di tutto e “scopre le carte” in merito alla propria strategia narrativa. Il pubblico, ben consapevole della verità, assiste alla vicenda dei ragazzi accusati accompagnato da un’opprimente sensazione di claustrofobia. Una claustrofobia messa in moto da un tentativo che, se non fosse per la drammaticità delle sue reali e concrete conseguenze, sarebbe appunto paradossale: quello di difendersi da accuse non solo false, ma di divincolarsi da confessioni estorte con metodi poco ortodossi ai danni di minori.
La regia di When they see us, concisa e asciutta, si affida ad un cast composito, che mescola con buoni risultati attori giovani e giovanissimi insieme con interpreti rinomati e sempre in parte. Su tutti, spiccano le prove di Vera Farmiga e di Felicity Huffman, che sprigionano un’incredibile forza emotiva in corrispondenza degli snodi più complicati del processo e delle indagini a carico dei cinque ragazzi accusati. Ava DuVernay non si preoccupa troppo di inquadrature mirabolanti, ma ha comunque la capacità di cogliere in pochi fotogrammi l’essenza di personaggi e situazioni, di equilibri (e squilibri) psichici ed emotivi.
Una miniserie emozionante e ben confezionata per riflettere sul razzismo "invisibile"When they see us
Valutazione globale - 7
7
When they see us: giudizio in sintesi
Basata su un fatto di cronaca realmente accaduto negli Stati Uniti nel 1989, la miniserie When they see us sprigiona una forza emotiva ed un coinvolgimento inversamente proporzionale al proprio format. Ava DuVernay drammatizza sapientemente il dramma di cinque ragazzi di colore ingiustamente accusati senza cedere al mero documentarismo. La narrazione è incalzante, essenziale, priva di tempi morti e non soffre di prolissità od ovvietà. Al centro della serie troviamo il macro-tema del razzismo, sullo sfondo del quale si infrangono e (faticosamente) si dipanano le vite dei protagonisti. A metà tra il giudiziario ed il drammatico in senso stretto, When they see us esibisce una scelta narrativa più che convincente: soprattutto nei primi due episodi, protagonisti e spettatori sono obbligati a confrontarsi con il paradosso di una “difesa impossibile”, ossia quella da confessioni estorte e nondimeno effettive. Buona prova di tutto il cast, che mescola nomi più e meno noti della serialità statunitense.
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