Un’opera sui generis
Leggere le opere di un autore è avviare una corrispondenza con lui e i suoi scritti sono lettere a cui noi siamo chiamati, prima o poi, a rispondere. Questa è l’idea che sta alla base del libro L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, scritto da Alessandro D’Avenia ed edito da Mondadori. È questa la quarta opera letteraria di D’Avenia, dopo Bianca come il latte e rossa come il sangue (2010), Cose che nessuno sa (2011) e Ciò che inferno non è (2014): ma di che tipo di libro si tratta? Difficile darne una definizione, quasi impossibile anche indicare un genere a cui appartiene, L’arte di essere fragili non è un romanzo poiché in esso possiamo dire che non vi sia trama e dunque neppure narrazione, ma non è neppure un libro di critica letteraria “mascherato” (come qualcuno potrebbe pensare sfogliandolo e vedendovi riportati numerose stanzi di più o meno famosi Canti leopardiani). La cosa a cui più si avvicina, forse, è ad una sorta di riflessione filosofica “semplice”, dove semplice non vuole affatto dire banale bensì condotta in termini diretti, da parte di un autore che ha sempre ben presente il motivo per cui scrive e il pubblico a cui si rivolge. Amore, fragilità, felicità: sono questi alcuni dei concetti – chiave su cui il prof. D’Avenia costruisce la sua trattazione rivolta ai giovani, arricchendola con esempi concreti e testimonianze tratte dalla sua esperienza di uomo e di docente.
Un autore sui generis
Lo spunto che ha portato alla creazione de L’arte di essere fragili è infatti (e D’Avenia lo ricorda costantemente nel corso di tutto libro) di carattere personale, privato, intimo: ha deciso di scrivere un libro su come Leopardi insegni a “essere fragili” perché a lui in prima persona il poeta di Recanati ha insegnato tutto questo. D’Avenia infatti non esita a oscillare tra il “sacro e il profano”, tra lo Zibaldone e gli aneddoti di classe, tra le citazioni Bibliche e le esperienze al tempo dei social network ma (lo si capisce immediatamente) non è un venditore di risposte facili bensì un “Io” che parla per esperienza personale, che offre solo le verità di cui è in possesso o ancor meglio i mezzi che conosce per raggiungerle.
Un “altro” Leopardi
Ma che ruolo può avere Leopardi in un libro che parla di fragilità, se non quello di “esempio lampante” di uomo fragile? D’Avenia, in queste duecento pagine che scivolano via in estrema piacevolezza, costruisce un percorso in grado di presentare l’autore dei Canti come un uomo (e dunque un poeta) diverso da quello della trita e ritrita vulgata scolastica del giovane deforme e ci presenta Giacomo Leopardi come un maestro di vita a cui guardare se si vuole scoprire il segreto per riuscire a trarre dalla disperazione la forza per elevare un canto, e per di più un canto meraviglioso. La sua parola, scrive D’Avenia: “si leva salva e lucente dalla notte oscura come un fuoco sopravvissuto al diluvio”. Come ciò sia possibile lo si deve scoprire leggendo il libro, ovvero ripercorrendo insieme all’autore le tappe della vita di Leopardi, che vengono dal giovane scrittore – prof. disposte in tre macrosezioni: Adolescenza (o l’arte di sperare), maturità (o l’arte di morire), riparazione (o l’arte di essere fragili), morire (o l’arte di rinascere). D’Avenia non si limita a farci ripassare la biografia di un poeta del XIX secolo ma “ce la spiega” come si presenta la vita di un caro amico a una persona che non lo conosce: non se ne danno solo le coordinate cronologiche ma se ne racconta la storia, sicuri di poterne dare una lettura veritiera perché lo si conosce quasi come se stessi.
È per questa conoscenza profonda della materia che la “versione di D’Avenia” di un Leopardi diverso (non più un Leopardi pessimista e malinconico ma un Leopardi che lotta e si batte per cercare e difendere senso della vita) convince, certo a volte stupisce per la sua radicalità, ma tutto sommato convince perché dà l’impressione di aver restituito più sfumature della personalità di Leopardi di quante non ne offrisse la versione “imbalsamata” imparata al liceo e perché dà l’impressione di riuscire, in questo modo, a giustificare meglio la straripante bellezza che emerge dai versi del poeta di Recanati. Del resto viene da pensare, come anche D’Avenia nota, che egli non potesse essere così del tutto pessimista poiché senza speranza non può esserci poesia, la quale invece c’è eccome, ed anzi, magnifica, “supera l’incanto adolescenziale e il disincanto della maturità nelle profondità del canto di riparazione”.
Il rapimento e l’amore
Ma se anche a fine libro D’Avenia non avrà del tutto convinto il suo lettore io mi sento di dire con una buona dose di certezza che sarà riuscito ad averlo affascinato, perché l’autore ha dalla sua parte due armi formidabili: egli sa offrire una visione di Leopardi e della storia che non è solo nuova ed originale essa è, soprattutto, granitica nella sua coerenza; inoltre egli ha la straordinaria saper parlare non solo ai giovani anche ai giovani che gli adulti di oggi sono stati. Probabilmente è perché ha 39 anni (età non casuale) ma riesce con una facilità non comune a raccontare, in alcune pagine che sono a mio avviso tra le più toccanti del libro, di come a 19 anni proprio Leopardi gli abbia insegnato che cosa sia il “rapimento” e come l’essere ad esso fedeli sia senza dubbio la cosa più importante di tutta la vita, poiché “rimanere attaccati alla vita è rimanere attaccati al senso della vita”. D’Avenia scrive all’età in cui Giacomo se n’è andato e sembra voler assumere su di sé la missione che il piccolo ma gigantesco poeta recanatese portava sulle sue spalle, presta al cantore di Silvia la sua voce perché tramite lui possa gridare ancora una volta (con i mezzi di quel XXI secolo su cui Leopardi fantastica) che l’amore è il segreto per rinascere quando tutto sembra morire e l’assoluto ed unico strumento con cui si può praticare l’arte di essere fragili.
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