Paradise: meritatamente premiato a Venezia 73

In Paradise Konchalovsky affronta il difficile tema dell’Olocausto, al cinema spesso scontato, attraverso un’analisi dell’individuo realizzata con una regia elegante, spesso fredda e cruda, e un bianco e nero rivelatore.
Paradise: l’Olocausto in tre destini
“A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
(Paradiso XXXIII, 145)

Olga (Julia Vysotskaya), Jules (Philippe Duquesne) e Helmut (Christian Clauß) sono di nazionalità diverse e conducono vite diverse fino a che i loro destini si incrociano nella devastazione della guerra. Olga è un’aristocratica russa e membro della resistenza francese, viene arrestata per avere nascosto alcuni bambini ebrei durante una rappresaglia. Jules è francese, lavora per la polizia collaborando con i nazisti. Il caso di Olga viene assegnato proprio a Jules. E poi c’è Helmut, un giovane ufficiale delle SS con il quale Olga dovrà confrontarsi nel campo di concentramento.
Paradise: la banalità del male

Paradise gioca proprio sulle incomprensioni del lager, sulla necessità di imparare la lingua dell’altro, sull’istinto di sopravvivenza e sulla morale. Attraverso l’uso di molteplici narratori e dei rispettivi punti di vista, Paradise sfiora gli aspetti banali, ma raramente narrati, della vita del lager riflettendo anche su com’era il mondo prima della Seconda Guerra Mondiale, su come da un momento all’altro chiunque potesse diventare carnefice del proprio vicino.
Paradise: il bianco e nero e lo stile documentaristico

È quindi con semplicità e maestria disarmanti che Paradise si rivela uno dei lavori più toccanti e originali di Venezia 73.
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