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Man in the Dark

Man in the Dark: la recensione del film dell’horror di Fede Alvarez

Man in the Dark è il secondo lungometraggio del regista uruguayano Fede Alvarez (classe ’78: all’attivo diversi cortometraggi e il recente remake di Evil Dead di Sam Raimi).

Man in the Dark: la trama

Il soggetto, assai semplice, si basa sul tentativo di tre giovani ladruncoli – Rocky (Jane Levy), Alex (Dylan Minnette) e Money – di derubare iMan in the Darkl goloso bottino che, si dice, un vecchio non vedente (Stephen Lang) nasconda nella sua isolata dimora. Facile come sottrarre le caramelle ad un bambino, no? 

No. L’uomo è un ex-marine degli Stati Uniti, quindi non proprio uno di quei simpatici invalidi che si vedono in giro – è uno che ci sa fare e, anche se ha perso la vista in Iraq, il suo finissimo udito lo rende molto ricettivo. E dunque pericoloso. Pessima idea restare intrappolati nella casa di un uomo del genere, non trovate? È proprio quello che succede ai nostri imprudenti amici, che scopriranno a loro spese quale terribile segreto si nasconda tra quelle quattro mura…

Qualcosa di già visto…

Sebbene il soggetto presenti interessanti possibilità di sviluppo, Man in the Dark sembra frustrare le nostre attese ripiegando su qualcosa di già visto sia dal punto di vista narrativo che dal punto di vista tecnico: testimonia in questo senso l’impiego di stilemi hitchcockiani (tra cui il celebre effetto “vertigo”: zoom in avanti con carrellata indietro) e l’uso della visione notturna (ampiamente diffuso nel thriller-horror: si pensi, ad esempio, a Il silenzio degli innocenti), strumenti usati con un certo compiacimento “accademico”, senza particolari variazioni rispetto alla tradizione. Più interessanti le sequenze mute del film, dove il dialogo verbale è abolito e i personaggi s’ingegnano per comunicare in altro modo, ad esempio tramite sms. Qui alla claustrofobia dominante s’unisce quella sorta di Man in the Darkstrana angoscia dell’essere sentiti: per sopravvivere al rude villain, i protagonisti devono essere quanto più silenziosi possibile. Si conferma così una regola di base della fenomenologia cinematografica: essere oggetto di percezione equivale a essere oggetto di predazione, la grande lezione filosofica del cortometraggio Film (1964) diretto da Alan Schneider su sceneggiatura di Samuel Beckett.

A confermare quest’importanza del silenzio interviene anche il titolo originale del film, Don’t Breathe, che, come spesso accade alle pellicole straniere passate al torchio della distribuzione italiana, ha subito una deformazione banalizzante. La variante nostrana Man in the Dark ha infatti due difetti:

  1. quello di preferire una secca descrizione oggettiva dell’“uomo nero” della storia (il non vedente) a uno di quegli efficaci imperativi negativi così ricchi di pathos cui il cinema thriller-horror ci ha abituati da tempo (tanto che nel 2006 Edward Wright ha voluto parodiarli con il divertente cortometraggio Don’t, confluito tra i finti trailers del film Grindhouse di Tarantino/Rodriguez!).

  2. quello di spostare l’attenzione dal piano uditivo – su cui si basa la forza aggressiva dell’antagonista e l’efficacia estetica delle scene più riuscite del film – al piano visivo, cioè alla generica minaccia atavica che l’oscurità rappresenta per noi esseri diurni.

Peccato che Fede Alvarez, pur dimostrando di padroneggiare i mezzi espressivi, non sviluppi con maggior impegno l’intuizione fenomenologica ma la lasci cadere alla mercé di schemi formali più mainstream.

Il villain non vedente

Qualche parola in più merita forse il vecchio antagonista. La sua infermità può ricondurlo facilmente alla tipologia di individui dai tratti perturbanti che caratterizza l’antropologia del genere horror: secondo questo schema – di provenienza arcaica – gli uomini dotati di menomazione

Man in the Dark

hanno una maggiore comunione con le forze sovrannaturali. Sebbene Man in the dark laicizzi completamente il motivo e giochi più sul ribaltamento del pregiudizio “cecità = debolezza”, il vecchio non si spoglia del suo karma negativo e acquisisce maggior inquietudine proprio in virtù del suo rifiuto di un mondo ultraterreno. Egli è infatti un nichilista degno di Dostoevskij: dimostra l’inesistenza di Dio attraverso l’imposizione di crudeltà che altrimenti, se Dio esistesse, non sarebbero permesse.

A tal proposito occorre aggiungere che non manca una scena che, facendo leva sul disgusto per i liquidi seminali, ricorda il machiavellismo di certi torture porn: l’associazione di questi due motivi – l’ateismo nichilistico e la tortura a sfondo sessuale – è vecchia quanto de Sade, ma la scena contiene un’interessante innovazione, ovvero il ricorso ad una rozza inseminazione artificiale. Una scelta puramente estetica o un preciso messaggio ideologico? In ogni caso la soluzione escogitata da Alvarez è attuale e degna di approfondimenti.

Eccettuati questi fugaci lampi, Man in the Dark resta un film senza carattere, eccessivamente tradizionale e piuttosto prevedibile. Sicuramente non al passo degli altri due horror indie di quest’estate, It Follows e The Witch. Peccato.

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