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Blair Witch

Blair Witch: la recensione del film di Adam Wingard

Blair Witch (2016) è il terzo film della saga horror inaugurata nel 1999 dal fortunato The Blair Witch Project di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez. Diretto da Adam Wingard e sceneggiato da Simon Barrett, una coppia già nota nel circuito underground statunitense per diverse pellicole horror, l’atteso sequel si rivela a dir poco imbarazzante.

Blair Witch: un sequel-remake…

Fin dall’incipit – con la solita scritta “quanto state per vedere è stato recuperato da alcune videocamere ritrovate nel bosco” – il film dichiara la sua natura di riproposizione delle dinamiche narrative e tecnico-formali proprie del primo capitolo della saga. Un rapido accenno alle trame dei due film basterà a chiarire i dubbi.

Blair Witch

Da The Blair Witch Project sappiamo che una ragazza, Heather, e i suoi due amici erano scomparsi misteriosamente in un bosco vicino Burkittsville, Maryland, mentre tentavano di girare un documentario sulla leggenda della “strega di Blair”. Blair Witch, ambientato ben vent’anni dopo, vede come protagonista il fratello di Heather, non ancora rassegnatosi all’idea che la sorella sia stata uccisa dalla fantomatica strega: a suo dire ci sono speranze che la ragazza sia ancora viva.

Ecco che questo campione di devozione fraterna decide di prendere qualche amico, un po’ di strumenti di registrazione video e di inoltrarsi allegramente nella foresta di Burkittsville per fare luce sui fatti di vent’anni prima. Il risultato? Il genio ripercorre esattamente gli stessi passi falsi della sorella. Uno psicanalista freudiano parlerebbe di “coazione a ripetere”.

Ridondanza dei temi

L’impressione è che gli autori abbiano confezionato, diciassette anni dopo, un inutile quanto ridicolo rifacimento del capostipite. Gli elementi più interessanti di The Blair Witch Project ritornano qui in una versione sostanzialmente inalterata, ma con l’aggravante di risultare stucchevoli: parlo del tema della perdita dello spazio e del tempo lineari nell’ambiente regressivo, circolare, della foresta; dei rituali feticisti cui attoniti assistono i personaggi (l’uso massiccio di effigi lignee che ricordano le bambole vodoo) e soprattutto la perenne invisibilità della strega, tratto caratteristico su cui la pellicola di Myrick/Sánchez investe buona parte del suo capitale estetico.

Considerato il bassissimo budget di produzione e l’inesperienza dei giovani autori, questo mix di espedienti può essere considerato uno dei punti di forza di The Blair Witch Project: ma che dire del lavoro di “copia e incolla” effettuato da Wingard e Barrett in Blair Witch? L’aspetto che turba di più in questo sequel è sostanzialmente l’assenza di variazioni rispetto al modello.

Soluzioni formali scontate

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La stessa cosa dicasi per l’aspetto tecnico-formale.

Una piccola premessa: l’idea del found footage, l’espediente del ritrovamento delle registrazioni nella foresta, l’uso della fotografia sporca e di cineprese rudimentali – tutte soluzioni che alla fine degli anni ‘90 fecero la fortuna di The Blair Witch Project – derivano direttamente da un illustre predecessore italiano, Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato, uno dei film più intelligenti quanto maltrattati, dimenticati, snobbati del nostro cinema cosiddetto di “serie B”.

Se a questo archetipo si assomma la probabile influenza dell’estetica del movimento Dogma 95 di Lars Von Trier, all’epoca ancora in auge, possiamo dire che The Blair Witch Project consacrò un modello di cinema horror purificato dalla sovrabbondanza di effetti speciali, una sorta di horror “fai-da-te”, artigianale e anti-hollywoodiano, che sarà poi la formula estetica di pellicole a noi più vicine tipo Paranormal Activity (2007).

Peccato che Blair Witch si limiti a rifare lo scabro stile audio-video del primo film senza aggiungere niente: anzi, lo rifà in modo più becero e caotico. L’effetto è decisamente soporifero.

Probabilmente anche Wingard e Barrett si sono perduti nella foresta di Burkittsville. Non stupisce allora che Blair Witch giri a vuoto su se stesso.

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