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Il settimo sigillo - Max von Sydow e Bengt Ekerot

Il settimo sigillo: riflessioni sul film di Ingmar Bergman con Max von Sydow

Il settimo sigillo è recentemente tornato in sala per commemorare il centenario della nascita di uno dei più grandi registi di ogni tempo: Ingmar Bergman. Citato ed omaggiato da illustri registi, osannato dalla critica di ogni tempo, il maestro svedese è rientrato nei cinema italiani con la versione restaurata di uno dei suoi film più noti, realizzato nel 1957, e con protagonisti Max von Sydow, Bengt EkerotGunnar Björnstrand e Bibi Andersson.

Il settimo sigillo: la trama

Max von Sydow e Bengt EkerotDi rientro dalle Crociate in una Danimarca funestata dalla peste, in un anno imprecisato del Medioevo, il cavaliere Antonius Block (von Sydow) si imbatte nella Morte (Ekerot), pronta a portarlo con sé. Ma Block decide di iniziare con lei una partita a scacchi, in modo da prendere tempo. Accompagnato dal fido scudiero Jöns (Björnstrand), il cavaliere si imbatte in varie umanità: disperati che, in preda al dolore, tentano una tardiva conversione; sciacalli ed edonisti, che cercano gli ultimi sprazzi di piacere; infine un gruppo di saltimbanchi, che si esibiscono di villaggio in villaggio.

Il settimo sigillo: le nostre impressioni

Tra i film più noti di Bergman, Il settimo sigillo è un’opera complessa come poche. L’ispirazione biblica e l’angosciante tematica della morte ad accompagnare i protagonisti; il tono, a metà tra il lirico e l’epico; l’impostazione scenografica, di derivazione pittorica; la sofisticatezza dell’inquadratura. Sono questi elementi a farne un film denso e profondo, le cui direttrici tematiche sono il rapporto tra uomo e dio, tra vita e morte, tra fede e scetticismo.

Max von SydowForse perché figlio di un pastore luterano, Bergman ha sempre avvertito l’urgenza della questione religiosa – o, più correttamente, fideistica –, uno dei topoi fondanti della sua sterminata filmografia. Che avvertisse il “Silenzio di dio” (titolo di una sua celebre trilogia) o meno, è certo che con Il settimo sigillo il regista di Uppsala abbia voluto mettere in scena se stesso ed i più profondi dilemmi intimi. Partendo dai suoi personalissimi dubbi, e da una circostanza storicamente (ma, non a caso, vagamente) determinata, Bergman allarga il raggio d’azione, dirigendo un coro polifonico nel quale ogni personaggio non è, semplicisticamente, se stesso, ma il tipo umano chiamato a rappresentare. Gli umani vizi e le universali virtù perdono così ogni contingenza storica, e sul banco degli imputati del tribunale di Bergman c’è l’umanità intera: avidi e lussuriosi, falsi ed approfittatori, poveri, ignoranti e giusti.

Assodata la radicalità delle questioni in ballo, e la vastità oceanica di un pubblico interpellato non solo in qualità di semplice spettatore, occorre accantonare (contestualizzandole) alcune “pecche” delle quali potremmo tacciare Il settimo sigillo. Ad esempio, l’eccessiva schematicità della regia; o, ancora, il grande sforzo circa la sospensione dell’incredulità richiesto allo spettatore, costretto a misurarsi con una morte sensibile, cioè, in senso proprio, materialmente percepibile dagli occhi, dall’udito, dalla materialità del cavaliere. Perché l’imponenza de Il settimo sigillo sta proprio in questo (presunto) scarto: tra filmico e vita vera. È proprio nella figura del cavaliere Block che l’uomo-Bergman, prima ancora dell’artista, traspare con impressionante nitidezza. È in lui che vive una parte consistente del regista, quella che spera in dio ma teme l’ignoto; che avverte quasi la colpa di avere un «cuore vuoto» ma che, al tempo stesso, desidera ardentemente confessarsi. Che sente di aver sperperato la propria vita, e che cerca riscatto in una salvezza non necessariamente personale.

Bengt EkerotLa morte, che il cavaliere vede, e che cerca di ingannare a scacchi pur di guadagnare tempo, è la pietra angolare del pensiero di Bergman, l’uomo che percepisce ovunque finitezza, miseria, vacuità. La morte, in questi molteplici significati, è esattamente quanto scorge in vita l’ateo Bergman e quanto lo spettatore vede incessantemente nel profilmico: onnipresente nelle inquadrature, menzionata in ogni dialogo come un monito cupo ed ineluttabile. Laddove, viceversa, il divino appare solo in forma di effigie o di istituzione religiosa funesta ed opprimente, dedita allo spregiudicato proselitismo: la peste scatena proprio quel terrore del quale l’istituzione si nutre.

Il valore paradigmatico de Il settimo sigillo richiama in maniera esplicita l’influenza di un gigante della cinematografia mondiale: Carl Theodor Dreyer. Non solo sul piano tematico (angoscia, solitudine, morte), ma anche dal punto di vista squisitamente tecnico. La fotografia contrastatissima di certe scene, che richiamano anche l’espressionismo tedesco; una ripresa statica e reiterata, con lunghi piani che costringono l’occhio a focalizzarsi su dettagli infausti e simbolicamente eclatanti.

Max von Sydow e Gunnar BjörnstrandAnche la direzione degli attori è vicina alla perfezione, e sebbene per il pubblico più giovane il volto e le espressioni di Max von Sydow possano risultare eccessivamente esasperati, è nella sua giusta collocazione storica che il pregio di questa recitazione assume il dovuto spessore. I primi e primissimi piani del cavaliere (così come quelli di tutti gli altri interpreti) sono già emblematici del temperamento e rivelatori di una personalità tratteggiata con una precisione cristallina, paragonabili a quelli di un D. W. Griffith.

Tutto questo, e anche molto altro, rendono Il settimo sigillo una pellicola densa, stratificata e ragionata, dove nessun fotogramma è lasciato al caso. Il film mette in scena un’anima irrequieta e curiosa, uno spirito alla ricerca di risposte, e ci consegna persino un messaggio insolitamente ottimistico. Bergman, l’uomo che sfida la morte, finisce per scorgere un possibile orizzonte di salvezza lontano dall’intellettualismo, del quale – ironia della sorte – in molti accusano la sua opera. Che rimane, in ogni caso, perentoria, ineludibile e radicale. In un certo senso eterna, quanto gli interrogativi che pone.

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About Vito Piazza

Tutto inizia con Jurassic Park, e il sogno di un bambino di voler "fare i film", senza sapere nemmeno cosa significasse. Col tempo la passione diventa patologica, colpa prevalentemente di Kubrick, Lynch, Haneke, Von Trier e decine di altri. E con la consapevolezza incrollabile che, come diceva il maestro: "Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato".

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