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The Get Down

The Get Down: recensione della seconda parte della serie Netflix

I Get Down Brothers sono tornati e questa volta sembra che niente e nessuno li possa fermare. La serie ideata e prodotta da Baz Luhrmann torna su Netflix con la seconda parte di episodi (5) che compongono la prima stagione. È un ritorno molto più orientato al dramma che al luccichio sfavillante e visionario della prima parte. Alla maggiore  introspezione fatta sui personaggi e sul racconto stesso corrisponde una minor frenesia nella direzione e nel montaggio dei singoli episodi (forse perché Luhrmann questa volta è stato assente dalla cabina di regia). Ma dove eravamo rimasti con The Get Down?

Cosa accade nella seconda parte di The Get Down?

The Get DownI cinque Get Down Brothers sono sempre di più sulla cresta dell’onda: le loro serate fanno registrare il tutto esaurito nei locali. Il gruppo è consolidato e affiatato e davanti a loro si prospetta un futuro roseo. Ma le prime crepe fanno presento a manifestarsi, a cominciare dalle famiglie dei ragazzi. Quella di Zeke Figuero vorrebbe per lui una sistemazione diversa con un lavoro di prestigio, e lo stesso dicasi anche per quella degli altri componenti. In più la gangster Fat Annie e il figlio Cadillac cercano di attirare a sé i Get Down Brothers sfruttando la loro immagine e il loro successo solo per scopi economici. Nel frattempo Mylen, che continua la sua storia d’amore tormentata con Zeke, è anche lei sul trampolino di lancio per diventare una grande star contesa da produttori e discografici e soprattutto dal padre pastore che continua a non vedere di buon occhio quello che fa.

Esplosione di funky e hip-hop

La seconda parte di stagione di The Get Down conferma quanto di buono fatto vedere nella prima presentando maggiore attenzione alla parte drama della storia. L’assenza di Luhrman, come fatto notare prima, ha ridotto sensibilmente l’effetto à là Moulin Rouge! più volte percepito nei primi episodi della stagione. Ciò non toglie che le scene dove sono previste un qualsiasi tipo di esibizione musicale sono tecnicamente perfette e coinvolgenti. Una su tutte: la performance di Mylene nel penultimo episodio (con un inizio alla Cabaret di Bob Fosse) e quella dei Get Down Brothers sul tetto di un edificio nel series finale, quando quest’ultimi si uniscono alla Zulu Nation. È un’esplosione di puro funky e hip-hop a cui è difficile resistere seduti comodamente sul divano senza farsi contagiare dal ritmo.

Missione portata al termine nonostante qualche espediente volutamente forzato

The Get Down Forse per contenere i costi di produzione già elevati di suo (si parla di oltre 120 milioni), nella seconda parte di stagione si fa spesso ricorso all’espediente del fumetto (i protagonisti prendono le sembianze di personaggi di un comics) scritto e disegnato da Dizzie (uno dei personaggi più complessi della serie) per l’amato Thor per raccontare alcuni accadimenti della storia che altresì avrebbero richiesto un’ulteriore sforzo economico. Questo, unitamente ad un maggior uso del green screen, non priva però la serie della sua mission iniziale, ovvero raccontare la nascita dei primi gruppi hip-hop che fecero la loro prima apparizione nel quartiere Bronx di New York a partire dalla fine degli anni ’70. Un quartiere dove si respirava un’aria mista tra delinquenza e bigottismo e dove la droga mieteva più vittime di una guerra.

The Get Down termina quì (?)

Nonostante qualcosa qua e là lasciato in sospeso, Baz Luhrmann ha più volte affermato che non ci sarà un’altra stagione di The Get Down. Se davvero dovesse terminare qui si può tranquillamente affermare che questo progetto ambizioso è stato portato a termine più che dignitosamente, grazie ad una serie (non per tutti) che ha saputo raccontare al meglio uno spaccato di storia americana recente senza avere particolari cedimenti in fase di scrittura.

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The Get Down

Valutazione globale

Meno frenetica, più introspettiva

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About Daniele Marseglia

Ricordo come se fosse oggi la prima volta che misi piede in una sala cinematografica. Era il 1993, film: Jurrasic Park. Da quel momento non ne sono più uscito. Il cinema è la mia droga.

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