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Rosemary's Baby

Rosemary’s Baby compie 50 anni: gli incubi dell’horror di Roman Polanski

Compie quest’anno 50 anni uno dei film più acclamati e famosi di Roman Polanski. Un film che rappresenta una sorta di spartiacque nella carriera e nella vita del regista polacco. Rosemary’s Baby è infatti l’ultimo film prima della strage compiuta da Charles Manson – fatto che sarà al centro del prossimo film di Tarantino in uscita nel 2019 – e che porterà alla morte della moglie del regista polacco Sharon Tate e del figlio che l’attrice aveva in grembo.

I 50 anni di Rosemary’s Baby: un capolavoro…allucinante

Rosemary's BabyTratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin, con Rosemary’s Baby Polanski continua il suo percorso cinematografico già intrapreso con Repulsion (1965), tra allucinazioni e appartamenti-prigioni, aggiungendo a questi uno sfondo di satanismo. Infatti, la protagonista Mia Farrow (Rosemary Woodhouse) vedrà la propria vita condizionata da due “diabolici” inquilini, i coniugi Castevet (Ruth Gordon e Sidney Blackmer). L’altro importante protagonista della vicenda – l’ambizioso marito di Rosemary, Guy – è interpretato da John Cassavetes. Un film in cui sono presenti tutte le firme polanskiane. Dallo spazio chiuso alla sopraffazione umana.

Dopo aver rappresentato il suo “spazio chiuso claustrofobico” con l’introduzione di un castello e di una villa – rispettivamente in Per favore non mordermi sul collo e Cul de sac – Polanski torna a collocare la sua ambientazione all’interno di un appartamento come aveva già fatto con Repulsion. Anche in Rosemary’s Baby assistiamo alla creazione di uno spazio che prende vita e si fa protagonista all’interno della narrazione. Col passare dei minuti l’appartamento di Rosemary diventa sempre stretto e teatro di eventi inquietanti che passano dal sogno – o allucinazione – alla realtà vera e propria. L’ambiguità, quindi, dirige la narrazione e non cessa nemmeno nel finale, in cui assistiamo allo sguardo sconvolto della protagonista mentre osserva per la prima volta il proprio bambino – mantenuto fuori campo – all’interno di una culla nera. Quest’occultamento contribuisce a reggere l’ambiguità fino in fondo, senza dare allo spettatore la soddisfazione di una chiarezza. Così facendo Polanski mantiene attivo quel «concetto di perdita» attorno alla figura del piccolo. Rosemary ritrova il figlio ma nonostante tutto l’ha «perso».

Ancora una volta il grandangolo e la profondità di campo rilasciano una tensione claustrofobica, con le pareti e il soffitto che tendono a stringersi attorno alla protagonista per alimentarne le ansie più profonde e gli eccessi di delirio, mentre fuori New York sembra lontana e indefinibile nella sua riconoscibilità come idea polanskiana vuole. Il tutto viene appesantito da un sapiente gioco di luci e ombre.

Rosemary’s Baby: 136 minuti per 2 Oscar

Rosemary's BabySe in Repulsion l’appartamento era rappresentato come spazio isolato dalle relazioni esterne, con la protagonista che cercava di proteggere questo suo isolazionismo, in Rosemary’s Baby la rappresentazione del luogo diviene una sorta di lager a tutti gli effetti, che tende a imprigionare la protagonista contro la sua volontà. Quando Rosemary cercare di fuggire verrà “tradita” dal dott. Hill e ricondotta nel suo appartamento. I Castevet appaiono, agli occhi dello spettatore, come esseri subdoli, invasivi, dai modi semi-autoritari e oppressivi. Caratteristiche che rimandano immediatamente alla persecuzione subita da Polanski in età infantile in quanto ebreo, a cui poi seguì la detenzione del ghetto di Varsavia. Nello spazio si muovono anche alcune metafore che conducono a una riflessione amara sulla società dell’epoca. Dall’arrivismo sfrenato di Guy – disposto a tutto pur di soddisfare le proprie ambizioni e i propri egoismi – fino alla costrizione verso un’integrazione sociale che Rosemary deve accettare.

136 minuti di pellicola e di finezze registiche che varranno a Polanski due nomination agli Oscar (con la vittoria nella categoria di Miglior Attrice non Portagonista per Ruth Gordon), quattro ai Golden Globe (con la vittoria sempre di Ruth Gordon) e il David di Donatello come Miglior Regista Straniero.

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