Venezia 73 ha dato spazio anche ad una piccola perla artistic Frantz di François Ozon. A mio avviso la qualità vera e propria del film e il suo pregio maggiore risiede nella destrezza del regista, che commuove con la delicatezza delle immagini, che ben si sposano con una storia struggente come questa.
Frantz: la trama
Ci troviamo in un piccolo paese della Germania, in ginocchio dopo la prima guerra mondiale. E’ il 1919 e il fatale evento ha mietuto le sue vittime. In questo caso, l’attenzione del regista ricade su Anna, la protagonista interpretata da Paula Beer, premiata a Venezia come miglior attrice emergente. La sua interpretazione della giovane e bella fidanzata che ha tristemente perso la sua dolce metà in guerra merita senz’altro il riconoscimento attribuitole.
Si tratta di un film sulle macerie, sulla desolazione esistenziale che la guerra porta con sé, portandosi via la gioia di vivere. È quello che accade ad Anna, privata del suo dolce amore, Frantz, a cui scriveva tenere lettere speranzose, nonostante la distanza e le difficoltà del conflitto. Dopo la guerra, non le resta altro che rendergli omaggio tenendo in meticoloso ordine la sua tomba.
Quand’ecco che lì, proprio in prossimità del suo piccolo tempio dell’amore infranto compare un ragazzo, uno sconosciuto, un forestiero, un nemico. Si tratta difatti di un giovane francese, Adrien (Pierre Niney) che si presenta alla famiglia di Anna. Egli racconta della sua amicizia con Frantz, dei loro momenti passati insieme, dal Louvre alle lezioni di violino… Avvertiamo che qualcosa nell’aria non è al posto giusto, che uno svelamento avverrà da un momento all’altro e così accade, senza troppe sorprese, ma senza rovinare l’effetto d’insieme.
Frantz: un dramma raffinato
Nonostante il prosieguo della trama non sia particolarmente originale, siamo comunque catturati dalla regia di Ozon, che costruisce un dramma delle immagini.
Seguiamo il racconto tra le immagini in bianco e nero, tecnica memore del tempo che fu, tecnica semplice e poco usata attualmente.
Indubbiamente questa marcata cifra stilistica infonde al film una inevitabile patina melanconica, ma non è solo questo. Ozon sa bene cosa significhi usare il colore e ce lo ricorda in qualche dissolvenza cromatica che trasforma le sfumature grigie in colori veri e propri. Queste variazioni colpiscono l’occhio e suggestionano senza turbare lo spettatore. A questa alternanza può essere d’altra parte associato lo stato d’animo della protagonista Anna, che compiange l’amato ma che ricomincia a gioire attraverso i racconti di Adrien.
Eppure non c’è solo questo: la camera segue i personaggi anche nella loro solitudine, nelle loro espressioni addolorate, nei loro movimenti incerti, come se seguisse di soppiatto. Forse è per questo che nonostante l’evidente lentezza del film la nostra attenzione non cali facilmente. La delicata accuratezza della regia non ce lo permette.
Non una questione di contenuto…
In confronto il contenuto passa in secondo piano. Siamo sì dopo la prima guerra mondiale, con l’Europa in ginocchio e gli animi incerti, incerti sulle proprie emozioni, incerti se gioire per la vittoria e la sopravvivenza o struggersi per le ferite troppo profonde. L’incedere esitante dei due personaggi prima e dopo essere venuti a conoscenza della realtà si basa sull’indecisione emotiva: cosa è giusto provare dopo dei dolori incomparabili come quelli appena vissuti?
Il contesto della guerra mondiale aiuta; ma è la regia che compie l’opera maggiore, nonché l’interpretazione degli attori che fanno di Frantz un dramma in bianco e nero ben, che quanto meno smuove un po’ di commozione senza diventare tedioso.
Per ogni notizia e aggiornamento sul mondo dello spettacolo, cinema, tv e libri, vi consigliamo di seguire la nostra pagina Facebook